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Senna. Le verità: gli incubi notturni di chi ha guidato la safety car

«Si limitГІ a guardarmi. Quello sguardo mi disse tutto quello che c’era da dire.В» Charles Bukowski, lo scrittore dannato americano, ha colto l’essenza del dramma patito per anni da Massimiliano Angelelli, il pilota della Safety Car nel Gp di San Marino, l’ultimo a incrociare lo sguardo di Ayrton Senna vivo.

Massimiliano Angelelli è più famoso negli Stati Uniti di quanto lo sia in Europa, dove si è formato come pilota professionista. Bolognese, classe 1966, ha vinto due volte la 24 Ore di Daytona, arrivando secondo in altre sette edizioni. Specialista delle gare endurance, è diventato una figura di riferimento della Dallara nel mondo delle vetture sport, oltre che essere un apprezzato manager. Nel 1994 era pilota ufficiale VW in Formula 3 tedesca, dopo aver vinto il titolo italiano due anni prima, insomma era un Mayländer dell’epoca, tutt’altro che sprovveduto.

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Ecco la copertina del libro

Ecco la copertina del libro “Senna. Le verità” edito da Minerva e scritto da Franco Nugnes

Conosco bene Max perché seguii la sua ascesa a partire dalla Formula Alfa Boxer, dove cominciò nel 1987 la sua carriera come molti altri giovani piloti italiani di talento. Suo padre, oltre a essere il responsabile delle operazioni in pista all’Enzo e Dino Ferrari, era all’epoca uno dei titolari della AB Motorsport, scuderia per la quale corsi anch’io nel Civt con una Peugeot 205 1.9. Se c’era una vettura libera, Angelelli, nelle pause della F3 tedesca, si aggiungeva per puro divertimento al gruppo di piloti che disputavano il campionato Turismo, e non perdeva l’occasione di gareggiare a Imola sul tracciato di casa, che conosceva come le sue tasche.

Non deve sorprendere, quindi, che proprio il giovane bolognese sia stato scelto per condurre la Safety Car nel Gp di San Marino 1994. La vettura prevista allo scopo era una Opel Vectra turbo con trazione integrale permanente e differenziale autobloccante. Disponeva di un quattro cilindri anteriore trasversale di 2 litri, capace di una potenza di 204 cavalli a 5.600 giri, con una coppia di 280 Nm a 2.600 giri. La trasmissione manuale era a 6 rapporti, mentre il peso era di 1.350 kg. Insomma una berlinona tutt’altro che sportiva…

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Max Angelelli festeggia la vittoria alla 24 Ore di Daytona con la Cadillac insieme a Ricky e Jordan Taylor e Jeff Gordon

Foto di: Alexander Trienitz

«Quando mi hanno fatto vedere la macchina mi si ГЁ gelato il sangue. Non era adatta a girare davanti alle F1. E allora andai da Charlie Whiting, delegato tecnico Fia, e gli spiegai le mie perplessitГ : quella vettura non era sufficientemente potente e, soprattutto, non disponeva di un impianto frenante adeguato per un impiego in pistaВ».

Angelelli decise allora di fare un breve test: un paio di giri dell’Enzo e Dino Ferrari, giusto per capire come si comportava la Vectra nel concreto…«Non mi ero sbagliato: era un vero disastro, nelle due discese bisognava lanciare un’ancora per fermarla. Già alla conclusione del secondo giro, i freni si surriscaldarono e il pedale divenne spugnoso, allungando gli spazi di frenata. Ero preoccupato e vedevo che il mio timore non suscitava alcuna reazione; decisi allora di andare al paddock della Porsche Super Cup chiedendo se avessero una 911 con il roll-bar e l’assetto ma con le gomme stradali.

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Max Angelelli, Wayne Taylor Racing, vittorioso a Daytona nel 2017

Foto di: Michael L. Levitt / Motorsport Images

Non gli sembrò vero di far eventualmente apparire nella diretta Tv una loro macchina davanti alla griglia delle F1. Ero orgoglioso della mia scelta e mi diedi da fare per trasferire le scritte Safety Car e la camera-car nell’abitacolo della Porsche. Quando era già tutto pronto, al sabato mattina mi spiegarono che non avrei potuto usare la 911. Ero ancora giovane e non capivo certe dinamiche e certi equilibri: evidentemente c’erano degli accordi commerciali che non conoscevo. Per me, banalmente, l’Opel Vectra non era adatta a diventare la Safety Car, per cui avevo cercato una vettura più adatta che era la Porsche. Senza darmi altre spiegazioni, mi dissero di smontare tutto dalla 911 per riallestire la Vectra a tre volumi. Compresi che quello che avrebbe dovuto essere un divertimento, si sarebbe potuto trasformare in un incubo.»

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J.J. Lehto, compagno di squadra 1994 di Michael Schumacher, al via del GP di San Marino era stato vittina di un crash con Lamy

Foto di: Motorsport Images

E così è stato: alle 14 di domenica 1 maggio è scattato il Gp di San Marino: poco dopo la partenza, ci fu l’incidente fra la Benetton di JJ Lehto, rimasto fermo sulla griglia, e la Lotus di Pedro Lamy…Successe tutto all’improvviso e io non ero pronto, nel senso che non avevo infilato la parte superiore della tuta ignifuga e non avevo ancora indossato il casco che era sistemato sul sedile posteriore. L’incidente mi colse di sorpresa, ma fu solo colpa mia. Charlie Whiting ricevette l’ordine via radio e mi disse di partire: per entrare in pista dovevamo percorrere la pit lane.

Charlie mantenne il controllo e dettò gli ordini con voce calma: io lo conoscevo abbastanza bene perché era il direttore di gara di Macao, dove avevo corso diversi anni in F3. Era seduto sul sedile di destra e non indossava il casco, perché aveva una cuffia in collegamento radio con la direzione gara per eseguire le indicazioni. Entrammo in pista e rallentammo, aspettando che dietro arrivassero le monoposto che, nel frattempo, avevano ridotto la velocità dopo l’esposizione dei cartelli Safety Car dalle postazioni dei commissari di percorso.

Con uno sguardo nello specchietto retrovisore vidi arrivare la Williams di Senna, che era al comando, allora presi velocità, e, ben consapevole dei limiti della macchina, non andai a cercare il 100% delle prestazioni, tanto più che non avevo idea di quanto sarei dovuto rimanere in pista prima che la gara potesse ripartire. Sapevo che i freni avrebbero tenuto non più di un paio di tornate, per questo cercai di essere conservativo in staccata, mentre in accelerazione schiacciavo il pedale dell’acceleratore con tanta forza che avrei potuto fare un buco nel pavimento”.

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Ayrton Senna, Williams FW16 dietro alla safety car guidata da Massimiliano Angelelli

Angelelli era concentrato come se fosse stato impegnato in una gara di F3:

«Imola in accelerazione non impegnava la Vectra, almeno finchГ© non si arrivava alle due salite. Il punto piГ№ critico era in uscita dalle Acque Minerali: nella rampa verso la Variante Alta l’Opel era come piantata, non riuscivo a superare i 130 km/h. Insomma mi sentivo fermo! Senna, che era al comando del gruppo, si affiancГІ con la Williams, come poi fece diverse volte, mostrandomi il pugno e indicandomi di andare piГ№ veloce. Sto risvegliando dei ricordi che speravo di aver cancellato dalla mia memoria: Charlie e io siamo stati gli ultimi a vedere Ayrton negli occhi.

Il brasiliano era furioso e aveva più che ragione: la sua Williams stava andando troppo piano e le gomme avrebbero perso pressione e temperatura. Whiting rimase in silenzio e non mi chiese di andare più forte. Era consapevole che la Vectra non aveva abbastanza potenza e, nel frattempo, sul cruscotto si erano accese tutte le spie di allarme… Alla frenata in discesa della Rivazza dovetti staccare presto e dolcemente, per cui la velocità di percorrenza era… ridicola. Dopo tre giri, nonostante tutte le attenzioni, ero finito largo e andando oltre il cordolo che delimitava la pista, finii sull’erba e poi con due ruote sulla sabbia. A quel punto mi preoccupai e coinvolsi Charlie: «Guarda che non ci sono più i freni! Io percorro ancora un giro e poi rientro ai box perché non riesco a farne di più: è pericoloso. Che figura faremmo se la Safety Car uscisse di pista?».

Whiting segnalò il problema alla direzione gara, che però non volle sentire ragioni: dovevamo restare in pista. L’ordine fu perentorio. Continuai, ma andavo sempre più piano. La cosa diventò imbarazzante: nulla di personale con la Vectra, ma quella macchina non sarebbe dovuta trovarsi davanti al gruppo delle F1! Alla conclusione del giro 4, finalmente, ci diedero l’ordine di rientrare in corsia box perché la gara poteva ripartire. Parcheggiai l’Opel in postazione e spensi il motore.

Non si è mai più riacceso. La macchina era… morta. Non andò più in moto. E quando, due giri più tardi, ci fu l’incidente di Ayrton interruppero subito la corsa con la bandiera rossa, altrimenti non saremmo stati in grado di muoverci!

In mondovisione si è visto Senna nelle riprese Tv sbracciarsi più volte perché l’andatura della Safety Car era troppo lenta…Quello l’avete visto tutti, ma ora vi racconto cosa ho vissuto io: per anni ho avuto il rimorso per l’incidente. Pensai che le gomme della Williams avessero perso molta pressione e la macchina avesse spanciato sui bump del Tamburello e magari si fosse rotto qualcosa prima che uscisse di pista. L’incidente, però, avvenne all’inizio del terzo giro dopo la ripartenza, quindi il settimo di gara, e la cosa non mi era chiara: a quel punto gli pneumatici avrebbero dovuto essere tornati alla giusta pressione e temperatura per garantire un buon grip. Per togliermi il dubbio, dopo la corsa chiamai Gianni Morbidelli, il pilota pesarese che era stato in gara con la Footwork: «Stai tranquillo – mi disse Gianni – il Tamburello lo abbiamo fatto in pieno da subito e le spanciate non creavano un grande problema nel controllo della monoposto». Le parole del pilota pesarese mi avevano in parte rasserenato. In realtà il tormento interiore Max se l’è portato avanti per anni. E a peggiorare le cose ci fu la pubblicazione di un’intervista sul “Times”: «Mi furono attribuite dichiarazioni che non avevo mai rilasciato al giornalista.

Seppi poi che era stato fatto un taglia e cuci di una mia conversazione con un altro reporter inglese. Non ho mai capito come le mie parole siano finite sull’edizione domenicale del “Times” con così tante omissioni che avevano finito per cambiare il senso di quello che era il mio racconto.

Speravo che non ci fossero reazioni e, invece, mi dovetti difendere. Fui chiamato in causa dagli avvocati della Williams. Ed ebbi la sensazione che fosse un tentativo di distogliere l’attenzione da quello che era successo per giungere a un’ipotetica manipolazione della Safety Car. Per gli anglosassoni la vettura di servizio era stata troppo lenta e aveva causato una perdita di pressione delle gomme che aveva fatto spanciare la Williams causando l’uscita di pista».

Anche nel processo emersero forti perplessità su chi aveva guidato la Safety Car…Non sapevano che ero un pilota professionista. Detenevo il record della pista di Imola in F3. Ero stato campione italiano della specialità propedeutica che sfornava i piloti che poi andavano direttamente in F1. Non mi si poteva imputare nessuna responsabilità, tenuto conto dei problemi che avevo avuto con la Vectra. Posso dire che in quella situazione difficile ho estratto il 100% del potenziale dalla macchina. Prima avevo cercato di conservare la frenata e poi di mantenere l’andatura concessa dal mezzo. Tuttavia dovetti presentare una serie di memorie per chiarire la mia posizione, ma non volli seguire l’iter legale e il dibattimento perché si arrivò a dimostrare che la pista e le pressioni delle gomme con l’incidente non c’entravano niente. Ma, nel frattempo, quanti anni sono stato male? Mi rimane il dubbio che, se al mio posto ci fosse stato un “pinco pallino”, senza esperienza di macchine da corsa, in aula sarebbe forse passata la teoria di coloro che incolpavano chi guidava la Safety Car.

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L’incidente di Pedro Lamy, Lotus 107C Mugen-Honda, al via del GP di San Marino 1994

Anche nel caso di Angelelli, come in altre situazioni che caratterizzano il caso Senna, emergono incredibili coincidenze, come in un gioco d’incastro del destino.

L’ingegnere di pista di Senna, David Brown, in seguito seguì la mia macchina quando guidavo per la Cadillac. E JJ Lehto divenne il compagno di squadra con cui divisi la macchina. Vogliamo parlare anche di Pedro Lamy? Del portoghese diventai poi il manager per vent’anni. Tutto questo non è semplicemente incredibile?

Ma, a distanza di tempo, hai mai avuto modo di parlare con David Brown dei tuoi crucci?No, mai. È un argomento che non abbiamo mai affrontato. Sono trascorsi trent’anni, magari non rammento tutti i dettagli di quel giorno maledetto, però ricordo le emozioni profonde e le cicatrici che mi ha lasciato. Vedere il pilota più forte della storia che ti affianca e ti fa il pugno per indicarti di andare più veloce mi fece sentire minuscolo: volevo scomparire, non essere mai nato. Per me fu terribile: sembrava che dall’abitacolo della sua Williams mi parlasse tanto era chiaro il messaggio che mi stava mandando.

Lasciai l’autodromo sentendomi quasi colpevole. È stato terribile. Le parole di Morbidelli furono confortanti, ma non misero in pace la mia coscienza. Dopo tre decenni, le ferite profonde dell’animo si sono lentamente cicatrizzate.

«Ho proseguito la mia carriera di pilota, tenendomi dentro quello che provavo quando pensavo ad Ayrton. Non ne volli mai parlare con nessuno. In America solo pochi sapevano che avevo guidato la Safety Car nel Gp di San Marino. Dopo l’uscita del film su Senna, invece, non mi si chiedeva altro se non che cosa fosse successo a Imola. Per trent’anni sono stato nell’ombra e adesso l’argomento ГЁ tornato in auge, a riprova della grandezza di un campione che non finirГ  mai nell’oblio. Era semplicemente il piГ№ grande…».

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