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Le macchine elettriche non corrono più e, rallentando, mettono a rischio tutti gli ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione su cui i governi, e con maggiore enfasi quelli europei, si sono impegnati di fronte ai propri elettori. Il Financial Times ha raccontato dei maggiori porti europei ormai diventati enormi parcheggi per le auto cinesi in attesa di acquirenti. Le vendite delle Tesla prodotte da Elon Musk sono in calo e, dall’inizio dell’anno, il titolo ha perso oltre il 30% della capitalizzazione di mercato. Le maggiori case automobilistiche hanno cominciato a ripensare i propri progetti di espansione nel settore elettrico non abbandonando il motore ibrido che, solo qualche tempo, fa l’amministratore delegato di Toyota ha indicato come il futuro vincitore della transizione elettrica, con una quota di mercato che può arrivare al 70% lasciando al motore integralmente elettrico la restante parte come massimo obiettivo possibile, a prescindere da qualsiasi intervento normativo o incentivo.
In un interessante approfondimento sul sito lavoce.info, Monica Bonacina e Antonio Sileo raccontano bene i primi segnali di crisi delle macchine elettriche, evidenziandone anche gli insuccessi con riferimento alla loro capacità di sostituirsi al parco macchine circolante e quindi, in ultima istanza, a incidere davvero sulle emissioni in atmosfera. I dati disponibili al 31 Dicembre 2022 mostrano come la diffusione delle vetture elettriche, nel periodo tra il 2013 e il 2022, abbia registrato un incremento che resta ben al di sotto di quello osservato per le vetture tradizionali: 3 milioni contro 27 milioni.
Alla luce delle normative, dei regolamenti e degli incentivi che nel periodo considerato sono stati prodotti dai governi per aumentare l’utilizzo e la diffusione dei veicoli elettrici, questi dati suonano molto più forte di un semplice campanello d’allarme e hanno l’eco spaventosa e lugubre di una campana suonata a morto.
Nessun governo occidentale si è sottratto alla retorica dell’urgenza sugli impegni ambientali, spinto da una evidenza empirica sempre più corposa e da una serie di istanze di gruppi di pressione e di stakeholder che hanno via via acquisito maggiore legittimità presso tutta l’opinione pubblica. La transizione elettrica come risposta al cambiamento climatico è diventata un mantra invincibile e spesso autoreferenziale, nel quale continua a mancare qualsiasi tema serio di valutazione dei costi e benefici che l’abbandono repentino e forzato di settori ad alto valore aggiunto e impego di manodopera può portare in termini di benessere, non solo economico.
Ventuno stati membri europei hanno messo mano al portafogli e offrono ai consumatori incentivi per l’acquisto di auto elettriche mentre gli altri riducono comunque l’importo delle tasse di circolazione o offrono una esenzione totale. I principali interventi di regolazione hanno riguardato l’adozione di parametri di emissioni per i motori sempre più stringenti che obbligano i consumatori a cambiare le auto più vecchie per continuare a circolare liberamente. Spesso queste politiche di divieto o di imposizione hanno diversi livelli di applicazione con interventi anche a livello regionale o locale che mirano a scoraggiare sempre di più l’utilizzo di macchine con motori non elettrici.
Anche gli Stati Uniti hanno adottato un mix molto simile e, grazie allo sforzo dell’amministrazione Biden, con l’approvazione del “Infrastructure Investment and Jobs Act” e del mastodontico “Inflation Reduction Act” sono state introdotte misure di incentivo diretto con riduzione delle tasse e con fondi dedicati alle infrastrutture di ricarica, alla completa elettrificazione delle flotte di veicoli governativi e al maggiore utilizzo da parte delle imprese di veicoli elettrici per la logistica e il funzionamento delle catene di fornitura di materiali e merci che alimentano il sistema produttivo. Anche qui però, in vista delle elezioni presidenziali e dello scontro con Trump sempre su posizioni scettiche rispetto al cambiamento climatico, è lecito aspettarsi cambi di rotta già anticipati dalle nuove regole sulle emissioni da parte dell’Agenzia federale per la Protezione dell’Ambiente che ha fissato limiti che consentono una transizione più lenta e meno traumatica rispetto a quanto ventilato nei mesi precedenti.
La Cina utilizza a piene mani la capacità di spesa di fondi pubblici di una economia centralizzata per dispensare incentivi ai consumatori e alle imprese anche se un recente articolo scientifico evidenzia lo scarso successo di queste politiche che ottengono la riduzione delle emissioni a costi troppo elevati rispetto ai benefici attesi. Quanto questo possa costituire un problema per il governo cinese, da sempre impegnato a elargire fondi pubblici per politiche di espansione di natura mercantilistica e per sostenere la propria volontà di potenza sullo scenario internazionale, è tutto da capire ma anche in questo caso ci troviamo di fronte a generose politiche di spesa che non considerano nella giusta misura i desideri e i bisogni dei consumatori.
I governi sembrano aver messo tutta la loro potenza di fuoco al servizio dell’offerta, con la carota dei sussidi e il bastone dei divieti, dimenticando, come spesso capita, che sono gli individui a fare le scelte in ragione del proprio benessere individuale e che è molto difficile cambiare gli atteggiamenti e le abitudini solo in ragione di incentivi monetari o di imposizione di regole. E se tutta questa mole di incentivi voleva incidere applicando la spinta gentile del cosiddetto paternalismo libertario, bisogna ammettere che ci si trova in realtà di fronte all’ennesimo piano di stampo sovietico che limita la libertà di scelta individuale senza risolvere i problemi.
La sempre crescente attenzione sociale ai temi ambientali e al rischio climatico sta certamente cambiando la struttura di acquisto di larga parte della popolazione ma non si può pensare che in tempi relativamente brevi si possano mutare abitudini consolidate e atteggiamenti culturali. L’automobile è sempre stata vista come un mezzo di indipendenza e libertà e proporre una alternativa che spaventa rispetto alla possibilità di percorrere molti chilometri non fornendo supporto adeguato alla ricarica è certamente un errore che solo un burocrate, incapace di leggere nella mente dei consumatori e convinto che la soluzione a ogni problema si ottenga spendendo soldi pubblici o eliminando comportamenti con un tratto di penna, può fare. La prima crisi dell’auto elettrica ci ricorda che capire i bisogni dei consumatori, proporgli alternative efficaci e allocare le risorse in maniera efficiente perché il prodotto possa soddisfare la maggior parte delle persone è il compito complesso e delicato delle imprese, il cui ruolo non va distorto trasformandole in captatori di fondi pubblici e svilendone così le risorse e competenze che le rendono il vero motore della crescita economica.
Migliorare il livello del dibattito consentendo l’utilizzo pubblico dei dati sui fenomeni climatici, accrescere la trasparenza informativa dando risalto a iniziative di educazione e di informazione che consentano ai cittadini di conoscere i problemi e modificare il loro comportamento, regolare l’utilizzo di infrastrutture comuni garantendo la concorrenza e la maggiore competizione possibile oltre che l’accesso non discriminatorio, sono tutte funzioni che i governi dovrebbero privilegiare per risolvere i problemi complessi di una società moderna.
Se è vero, come diceva Churchill, che non bisogna mai buttare via una buona crisi, allora è importante che produttori e governi interessati alla transizione elettrica facciano tesoro di quello che sta succedendo. E diano più credito ai bisogni e ai desideri degli individui che, alla fine, restano sempre e comunque i veri padroni del loro futuro e dello sviluppo economico e sociale di una comunità.