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Ineos Grenadier: prezzo, interni, motori, uscita, guida, opinioni, recensioni

Come certamente sanno i milioni di persone iscritte alla newsletter a cui affido editoriali ed elucubrazioni varie, qualche tempo addietro mi ero spinto a Londra per raccontare la curiosa genesi della Ineos Grenadier, progettata dal miliardario Jim Ratcliffe col dichiarato intento di ricreare in vitro l’erede spirituale (e non solo) della Land Rover Defender. Essendo le linee di montaggio in via d’avviamento, non avevo però avuto l’occasione di guidarla. Quattro mesi dopo, l’occasione si è presentata. Sempre nel Regno Unito, ma assai più a nord di Londra. Per la precisione, nella natura selvaggia delle montagne scozzesi. Prima di spiegare come va la macchina, in fuoristrada e no, ecco un veloce riassunto di quanto avevo appreso a suo tempo, ché la storia contribuisce a interpretare il prodotto.

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Ineos Grenadier (2023)

Tutto s’inizia quando JLR decide di sostituire la decrepita, amatissima Defender con un modello più moderno ma ritenuto dagli affezionati clienti troppo fighetto. Sir Ratcliffe, che della Land in purezza è il fan number 1, è un inconsolabile vedovo che fatica a elaborare il lutto. Essendo incidentalmente l’uomo più ricco d’Albione, decide che in fin dei conti la sua Ineos – clamorosa megaditta da 180 mila dipendenti che spazia dall’oil&gas al calcio – può permettersi di avere anche una divisione automotive. Chiede a JLR di dargli linee e diritti della Defender. JLR dice no. Ratcliffe replica come usano fare i ricchi: si costruirà da solo quello che brama e desidera. Il mandato per gl’ingegneri è di progettare la migliore 4×4 al mondo. Vengono chiamati a raccolta i migliori componentisti. Agli stilisti viene semplicemente detto di rifare una Defender, solo più bella. Compito preso un po’ troppo alla lettera: quando JLR vede i primi prototipi, fa causa alla Ineos per plagio. Ratcliffe esce vincitore dal tribunale. Manca l’ultimo tassello: la fabbrica. JR, nazionalista convintissimo, all’inizio aveva affermato che la Grenadier – il nome dell’auto viene dal pub di Belgravia al cui bancone aveva preso forma la pazza idea – non poteva che essere costruita in Inghilterra. Quando la Brexit si avvera, Ratcliffe mette da parte lo spirito autarchico e sonda se in Europa ci sono stabilimenti disponibili (già che c’è, prende pure residenza a Montecarlo: l’autarchia è principio nobile ma scomodo). Daimler gli offre Hambach, dove si sono costruite milioni di Smart e che è appena stata ristrutturata. Ratcliffe ringrazia. Tempo tre anni e la Grenadier è pronta. E Ratcliffe, nel frattempo, s’è pure comprato il pub di Londra, evidentemente ritenuto luogo fertile per la creatività.

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Preso l’abbrivio, avrete capito che si tratta di una storia quantomeno singolare, a partire dal fatto che in un mondo dove si rivendica l’unicità e l’alterità come valori imprescindibili l’idea di copiare (omaggiare, vabbé) un’altra macchina – per quanto totemica – suona deliziosamente eccentrica. Comunque. Un miliardo e trecento milioni di sterline dopo la storica decisione presa al pub (la percezione immediata è che la Ineos disponga di mezzi pressoché illimitati), eccomi dunque seduto al volante (dalla parte sbagliata, s’intende) della Grenadier pronto ad affrontare i tratturi insidiosi delle Highlands. Prima impressione: sembra di essere seduti nel cockpit di un aereo. Sono consapevole che un tempo quest’espressione soleva indicare in generale cruscotti particolarmente ricchi. Qui lo affermo nel senso più proprio. L’altra grande passione di JR (uno dei tanti soprannomi di Ratcliffe) è l’aviazione (oltre a correre – a piedi – nel deserto e altre cose del genere), quindi ha deciso che la Grenadier dovesse ispirarsi anche a quel mondo. Così, la console centrale parte ad altezza cambio per arrivare sopra la testa, in un’orgia di tasti, leve, pulsanti, bussole (una) e display vari. Sul soffitto, per dire, ci sono 21 comandi, compresi quelli che controllano i differenziali. Alla fine, ci si destreggia, ma all’inizio la messe è disorientante, abituati come siamo a HMI dalle logiche sempre più computeristiche. Quello che non ho capito è perché in una macchina di stampo orgogliosamente analogico non abbiano messo dietro al volante (che sembra quello della Smart, ma giurano che non è così) una classica strumentazione a orologi. Gl’ingegneri dicono che così in fuoristrada non ci si distrae, avendo la visuale libera: sarà, ma intanto per vedere gli angoli d’inclinazione (ma anche soltanto il tachimetro) bisogna muovere lo sguardo dal parabrezza agli schermi digitali in alto sulla plancia.

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Di sicuro, rispetto alla Land si sta seduti meglio, sia come confort che come postura, perché c’è un sacco di spazio in tutte le direzioni, anche quando si tratta di trasportare cose (il portellone è diviso in due ante verticali: il fermo è fatto apposta per evitare lo sbattimento accidentale in posti dove soffia il simun, o altro vento similare). Peccato che i pedali siano tutti spostati a destra, spintici dal collettore di scarico che sporge nel vano: dicono che nelle versioni con la guida a sinistra il problema non si pone. Tra l’altro, lo stesso problema si pone con i tergi, evidentemente progettati per guidare dall’altra parte: dopo due giorni nel fango e nella pioggia, ci si accorge presto che le spazzole sono incardinate per funzionare bene fuori dalle isole, lasciando una grande parte del parabrezza sporca. Anche qui, ci si abitua: però ci si domanda perché in una macchina dove hanno addirittura pensato a un clacson supplementare per i ciclisti (Ratcliffe è maniaco, pure, di bici) sia sfuggito un dettaglio del genere. A mio modesto avviso, è una delle inevitabili contraddizioni di un progetto che mette assieme origini e competenze diverse. Per quanto inglesissima nell’animo, la Grenadier è per tre quarti tedesca, considerato che l’ingegnerizzazione e la messa in produzione sono di Magna Steyr, mentre il propulsore (non powertrain, ché qui non c’è una porzione elettrificata) viene dalla BMW, che ha fornito i propri piece de resistance, ovvero i sei cilindri tre litri benzina e turbodiesel accoppiati all’otto marce ZF (il manuale non c’è). Da qui il badge con le bandiere britanniche e tedesche accoppiate: i francesi, sul cui suolo insiste la fabbrica, si sono sentiti esclusi e per non urtare l’irascibile Macron, JR ha dovuto aggiungere il tricolore dell’Esagono, però sulla fiancata, verso la coda, dove si nota poco.

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E ora, a guidare. Se uno non ha portato una Classe G o un qualsiasi fuoristrada old style negli ultimi anni (o una Defender vecchio modello), i primi chilometri su asfalto sono stranianti. L’impressione, tra sterzo demoltiplicato (3,85 giri da una parte all’altra!) e gommatura tassellata all-terrain, è che la Grenadier vada dove vuole lei, costringendo a remare sullo sterzo per mantenere un’andatura, non dico diritta, ma almeno vagamente dentro la corsia. Che la grande 4×4 su asfalto sia a suo agio come un lottatore di sumo sul campo di padel non dev’essere una sorpresa: l’hanno fatta apposta così, perché qui i viaggi in autostrada vanno ritenuti trasferimenti necessari per andare dove le caratteristiche della vettura trovano senso e significato. Ovvero nella fanghiglia, fra le rocce, sulla sabbia, dentro i torrenti. Ambienti che nei due giorni di guida abbiamo calcato senza sosta. E a quel punto viene fuori la vera natura della Grenadier. Innesti la modalità off-road (che di fatto toglie i controlli elettronici), ingrani le ridotte, blocchi tutti i differenziali e di colpo la Ineos si trasforma in un mezzo in grado di affrontare qualsiasi fondo. Pur avendo un impianto rudimentale (scusate, classico), la trazione c’è sempre. Chi dei colleghi se ne intende più di me di fuoristrada asserisce che la Grenadier è “virtualmente imbattibile nei terreni da ridotte”, a patto che non si debba chiedere a ruote e assali di aggredire ostacoli troppo alti (il Rubicon Trail, per parlare di cose che conosco, con questa non si fa). Ci siamo pure infilati dentro un lago per vedere se il motore respirava anche senza snorkel o se entrava l’acqua: ne siamo usciti vivi e asciutti.

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Sui motori c’è poco da dire: hanno un funzionamento serico, un po’ disturbato dal sibilo costante e fastidioso del gruppo di rinvio, perfettamente assecondato dal cambio che rimane ancora una delle migliori trasmissioni in giro. Difficile dire se sia meglio il diesel o il benzina: il primo ha più coppia in basso, che in fuoristrada aiuta, l’altro conferisce all’intera esperienza una piacevolezza indubbia, ma ha consumi – stando al computer di bordo – abbastanza agghiaccianti. Detto che ci sono due versioni disponibili (la Utility Wagon, omologata autocarro a due oppure cinque posti, oppure Station Wagon a cinque posti, offerta negli allestimenti Trailmaster e Fieldmaster, quest’ultima più “urbana”) e che i prezzi partono da 69.290 euro per gli autocarri e da 78.485 euro per le autovetture, una considerazione finale, rimandando al giornale per gli approfondimenti tecnici. La Grenadier, come accadeva nel football prima della rivoluzione del calcio totale, gioca in un ruolo preciso e ai suoi compiti non deroga: rifuggendo i compromessi, fa benissimo quello per cui è stata pensata. Certo, alla fine un sacco di gente che di lavoro non fa il farmer nelle Shetland la vorrà per farne altro. Ma che l’obbiettivo di Lord Jim di fare la migliore off-road specialistica sia stato conseguito è evidente. E non era affatto facile. Nel mio intimo, comunque, spero che la Ineos vorrà continuare a sviluppare il progetto per affinare anche la parte stradale: a quel punto avremo fra le mani qualcosa di davvero eccellente.

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