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Ferrari resta fermo ai box

Per il suo film su Enzo Ferrari, il venerabile Michael Mann fa una scelta sorprendente, e anche coraggiosa. Ci nega quasi del tutto le spettacolari corse in auto che ci saremmo aspettati da un maestro dell’action come lui, anzi in pratica succhia l’adrenalina via dal motore della storia e punta tutto su un melodramma delle relazioni e degli affetti, terreno sul quale in passato ha dimostrato un equilibrio meno saldo. Ma la vita, si potrebbe dire, neanche a Hollywood è un film, e non sempre le scelte coraggiose si rivelano anche azzeccate.

Sorretto a fatica da un gigantesco Adam Driver, Ferrari ci ripropone il modello non certo inedito dell’antieroe incapace di conciliare l’ambizione e l’eccellenza professionale con un minimo di equilibrio nella vita personale, il Prometeo che di giorno sfida gli dèi ma varcata la porta di casa è incatenato alla rupe delle sue contraddizioni. Il modello mitologico per verità è un altro, e viene esplicitato circa sette volte come tutto in questa sceneggiatura, che all’intuito dello spettatore si preoccupa di non lasciare davvero nulla: è quello di Saturno che divora i suoi figli.

Enzo Ferrari infatti non solo perdette drammaticamente per una malattia il figlio Dino ancora bambino, ma visse con comprensibile tormento le morti in strada dei suoi piloti, non infrequenti nell’epoca pionieristica dell’automobilismo. “Ho dovuto costruire un muro, altrimenti avrei dovuto cambiare mestiere” spiega Ferrari/Driver praticamente rivolto al pubblico, rievocando il tragico pomeriggio del 1933 in cui perse contemporaneamente i due amici Borzacchini e Campari. La struttura stessa del film – che racconta la tragedia di Guidizzolo del 1957, non cercatela su Google se non sapete di che si tratta e non volete spoiler – è scandita da due morti in pista, esattamente in quelli che i manuali di sceneggiatura chiamano i due turning point della storia.

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Il problema, si potrebbe dire, è che in questa meditazione sull’eterna dicotomia tra vita e morte ciò che è buono non è nuovo e ciò che è nuovo non è buono. Il piano degli avvenimenti è semplicemente troppo prevedibile, mentre quello della vita interiore del protagonista si ferma alla superficie, oltretutto con una verbosità a cui praticamente manca solo il coro greco, e che ci costringe a pensare quando invece dovremmo sentire. I riferimenti a Cechov e a Goya vorrebbero dare al film una portata universale, ne fanno invece un prodotto generico.

Proprio per questo, dovendo cimentarsi con l’impresa scoraggiante di recitare un copione praticamente senza sottotesti, a far la parte dei leoni sono gli attori. Adam Driver non solo mette in scena un Enzo Ferrari fichissimo, ma ne cattura una specie di dolce durezza, di quieta ossessività, che filtra con l’understatement diverse rozzezze nella scrittura dei dialoghi. Se lo spettatore mantiene un certo livello di coinvolgimento emotivo nel film, se il pubblico della proiezione stampa ha pur timidamente applaudito invece di sbadigliare, a mio parere il merito è quasi tutto del magnetismo dell’Enzo Ferrari di Driver.

Penélope Cruz ormai ha una personale galleria di mogli bistrattate eppur non sottomesse, ma qui trova una chiave divertita e vagamente luciferina che le permette di venirne fuori con gran classe.

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Infine, non so se si può scrivere qualcosa sommessamente ma io ci provo, perché parliamo pur sempre di Michael Mann: le scene action in auto, fatta eccezione per il climax tragico del film, quando finalmente arrivano sono un po’ deludenti e spesso confuse.

Ferrari troverà un suo pubblico, non c’è dubbio, perché la storia e il personaggio che racconta hanno una forza d’attrazione universale e perché in un certo senso non del tutto lusinghiero acchiappa bene l’italianità come la vogliono all’estero, e come in fondo piace pure a noi quando non abbiamo voglia di fare lo sforzo di raccontarci fino in fondo.

Ma se Ferrari era l’occasione di fondare una mitologia cinematografica laddove già esiste una mitologia industriale dell’eccellenza italiana, è un’occasione fallita.

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