- Il caso concreto
- La decisione era stata quindi a sua volta impugnata dinanzi alla Suprema Corte
- La decisione della Suprema Corte
Condominio, sulla rampa carrabile non si parcheggia
Il caso concreto
Nella specie, alcuni condòmini avevano chiamato in giudizio altri comproprietari dello stabile per sentire accertare e dichiarare l’illegittimità e il carattere abusivo dell’occupazione stabile che gli stessi, a partire dal 1999, avevano operato con propri autoveicoli in relazione alla parte comune condominiale costituita dalla corte di accesso ai garage. Il tribunale, all’esito delle risultanze istruttorie, aveva rigettato la domanda, motivando la decisione sulla base del fatto che il diverso utilizzo della cosa comune da parte dei condòmini convenuti e l’utilità specifica aggiuntiva che essi traevano dall’uso della corte di accesso ai garage non superava il limite dell’impedimento dell’uso della cosa propria da parte degli altri comproprietari, come disposto dall’art. 1102 cc.
La sentenza era stata impugnata e la Corte di Appello aveva accolto il gravame, accertando viceversa la violazione dell’art. 1102 cc da parte dei condòmini appellati in relazione all’uso frequente dell’area comune come parcheggio di entrambe le proprie autovetture, riconoscendo agli appellanti anche il diritto al risarcimento del danno in via equitativa (utilizzando quali parametri utili il valore locativo dei due posti auto con un abbattimento del 50%). I giudici di secondo grado, dall’attenta lettura delle risultanze probatorie, compresa la consulenza tecnica d’ufficio, considerando altresì la naturale destinazione dell’area in questione come rampa carrabile di accesso ai garage, e non già quale area destinata a parcheggio, avevano concluso per il superamento dei limiti di cui all’articolo 1102 cc, tenuto conto del disagio creato da tale condotta ai condòmini appellanti, costretti a effettuare almeno due manovre suppletive per imboccare la rampa, posto che il frequente stazionamento delle due vetture ostacolava e rendeva difficoltoso l’accesso e il transito lungo detta area.
La decisione era stata quindi a sua volta impugnata dinanzi alla Suprema Corte
Il principio generale di cui all’articolo 1102 cc. Dettata in materia di comunione, ma applicabile analogicamente anche al condominio negli edifici, la norma di cui all’articolo 1102 cc è una di quelle disposizioni generali che svolge un ruolo sempre più importante nel continuo processo di adeguamento della disciplina condominiale alla mutata realtà sociale e alle nuove esigenze abitative. L’articolo in questione, rubricato “uso della cosa comune”, dispone che ciascun partecipante possa servirsi del bene comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il proprio diritto. A tal fine, si specifica, ciascun partecipante può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa, ma non può estendere il suo diritto su di essa in danno degli altri partecipanti, a meno che ponga in essere atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Grazie a questa disposizione, si può affermare con certezza che le parti comuni, lungi dall’essere qualcosa di immodificabile, possano invece essere utilizzate dai condòmini, senza ovviamente mutarne la destinazione, in tutti i modi in cui sia possibile per questi ricavarne una qualche utilità personale. Le applicazioni concrete di questa norma sono innumerevoli e sicuramente quella di maggiore significato sociale riguarda la giurisprudenza formatasi in tema di superamento delle barriere architettoniche, con particolare riguardo alla possibilità di installare un impianto di ascensore anche senza passare dall’autorizzazione dell’assemblea condominiale.
La decisione della Suprema Corte
La Cassazione ha infine rigettato il ricorso, confermando sul punto la decisione di appello. La Suprema Corte ha infatti ribadito che l’articolo 1102 cc consente l’utilizzo della cosa comune da parte di uno o più comproprietari, anche in modo particolare e diverso da quello degli altri, a due condizioni alternative tra loro: che sia rispettata la destinazione della cosa e che l’utilità maggiore e più intensa tratta da uno dei condòmini non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso. A questo proposito la giurisprudenza ha precisato che la destinazione della cosa comune deve essere determinata sulla base di elementi economici, giuridici, ossia le norme che tutelano questo interesse, e di fatto, quali le caratteristiche del bene. Essa può risultare anche dalla pratica costante e senza contrasti da parte dei condòmini, tenendo quindi conto del comportamento osservato dai medesimi nel corso degli anni.
Quanto alla contestazione del danno liquidato in via equitativa dai giudici di appello in favore dei condòmini, la Cassazione ha ricordato che le facoltà di godimento e di disposizione del bene costituiscono contenuto del diritto di proprietà, che viene quindi pregiudicato ove dette facoltà siano in qualche modo compresse a seguito di iniziative altrui, dolose o colpose, da ritenersi ingiuste, perché prive di un valido titolo. Nel caso di specie, secondo la Corte, il sostanziale mutamento di fatto dell’area comune, adibita a parcheggio dai ricorrenti senza il consenso degli altri condòmini, si era tradotta nella sottrazione di facoltà dominicali di godimento e di disposizione dell’area adibita a rampa carrabile di accesso ai garage. La compressione di dette facoltà deve quindi essere risarcita e, per determinare il quantum di tale risarcimento, pare corretto fare riferimento ai frutti civili che l’autore della violazione abbia tratto dall’uso esclusivo del bene, imprimendo a esso una destinazione diversa da quella precedente.