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La Formula 1 torna in Cina, ma com'era alla prima edizione di venti fa? Ecco il racconto di Shangai

Dopo cinque lunghissimi anni la Formula 1 torna a Shangai per il Gran Premio della Cina 2024. Ma com'era durante la prima edizione nel 2004? Ecco il racconto

Sono passati venti anni da quella fatidica prima volta a Shangai. I ricordi di viaggio prendono forma e si trasformano in un racconto che oggi, venti anni dopo, pare impossibile per come si è svolto visto che la Cina è cresciuta a tal punto che i problemi di ieri sono sconosciuti oggi, come si è dimostrato l’ultima volta che siamo stati a Shangai nel 2019, per il GP n.1000 della storia della F.1. Oggi non serve il visto di ingresso, i servizi da hotel a circuito sono stati semplificati, anche perché dal centro, in 50 minuti, la metropolitana ferma sotto la tribuna centrale del circuito e gli hotel media sono a 20 minuti, sperduti in una landa desolata. Ma cosa è stata la prima volta a Shangai (per inciso Shan vuol dire grande e l’ideogramma è parte del disegno del tracciato) i problemi, le incomprensioni e la solidarietà fra colleghi un raro esempio di cosa voleva dire fare il giornalista inviato in F.1. Oggi non è così e molti non fanno più questo mestiere. Ma intanto, ecco il ricordo di cosa è stata la prima volta in Cina…

Che non sarebbe stata una trasferta semplice lo si era capito subito. Da quando l’ambasciata cinese aveva rifiutato i visti ai primi giornalisti che lo avevano chiesto. Per sbloccare la situazione sono scese in campo forze politiche e sportive, col risultato che ai primi di settembre le pratiche erano state sbloccate. Ovvero, con un GP in programma il 26 del mese e la partenza fissata almeno cinque giorni prima, con i voli da confermare e una settimana per ottenere il visto, il tempo era particolarmente limitato. È così, una mattina calda dei primi di settembre, al consolato cinese di Milano ci ritroviamo in fila ad attendere il nostro turno allo sportello per lasciare foto, passaporto e importo relativo. Dopo oltre un’ora di attesa comincia a serpeggiare il nervosismo, dopo due ore arriva la prima mazzata. Andrea Cremonesi, della Gazzetta dello Sport, si sporge dalla fila e rivolgendosi qualche metro più indietro mi chiede: “Hai mica il numero di telefono di quella imbalzata di Sophia?”. Oddio, che è successo? “niente, non hanno la lettera di invito delle autorità di Shangai, quindi non possiamo fare il visto”. Non è possibile, da Londra avevano dato garanzie, forse si saranno sbagliati. Il consolato chiude alle 12, ma siamo già alle 13 e dobbiamo ancora arrivare allo sportello dove c’è un impiegato che non ha voglia di fare niente. Consegniamo il modulo, ci guarda, va nell’altra stanza, restituisce il tutto e ci dice di aspettare a fianco di Cremonesi. Andrea, intanto, è riuscito a chiamare in Cina per sbloccare la situazione e mentre siamo in attesa, arriva anche l’agente di viaggi di Ercole Colombo con una decina di passaporti. Stessa meta, stesso obiettivo, stessa attesa. Sono le 13,30, quasi tre ore dopo l’inizio della fila, quando il poco solerte impiegato ci chiama tutti, si fa consegnare i documenti e ci rispedisce a casa con la promessa. “Fra sette giorni, fra sette giorni”. Facciamo i conti: se fra una settimana non abbiamo i visti, perdiamo i soldi dell’aereo, l’albergo e la trasferta. Sette giorni dopo, poco speranzosi, siamo di nuovo in fila con un altro giornalista all’attesa, Paolo Filisetti di F.1 Racing. Mentre stiamo facendo la fila, sentiamo urlare dallo sportello a fianco al nostro: anche a Filisetti hanno detto che mancava l’invito. Urla, casini, imprecazioni e la nostra addetta allo sportello che ci fa segno di pagare 17 Euro e poi ci dà il passaporto col visto. Filisetti dovrà penare altri sette giorni ma ce la farà. È fatta!!!!!

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Errore, perché in Cina bisogna ancora arrivarci… Milano Malpensa, 21 settembre, mattina ore 10. Lunga fila al check-in della Lufthansa per imbarcarsi sul volo per Francoforte e poi fino a Shangai. Passa un’ora, un’ora e mezza e quando finalmente la poco solerte impiegata prende il biglietto, ce lo rende: “Spiacente, il volo è chiuso, doveva arrivare prima al check in”. Do una risposta che è una via di mezzo fra un insulto e un ruggito e la sempre poco solerte addetta balbetta: “Il volo è chiuso perché è in overbooking, mi spiace. Parta domani”. Allora vuoi la guerra, piccola rompiscatole teutonica. “Guardi che devo andare a Shangai, o mi trova un posto su un aereo o io da qui non mi muovo e le blocco la fila”. Con una ventina di passeggeri ancora in attesa, più che una minaccia, era una promessa. Di guai, se non fossi partito. Comincia ad armeggiare col computer, non trova niente e ripete mi dispiace. E io: anche a me, si dia da fare. Lei ha creato il casino e lei lo risolve. Nel frattempo, chiamo una cara amica a Bologna che lavora alla LH e mi risponde: “Mo aspetta n’po’ che chiamo la Wanda e troviamo qualcosa”. Mentre discuto con la poco teutonica hostess (è italiana) della LH di Malpensa, arriva la chiamata da Bologna: “Guarda che c’è un Monaco Shangai, ti blocchiamo noi il posto, facci sapere”. A Malpensa, invece, la hostess se ne esce con “C’è un volo China Airlines, parte questa sera alle 22, adesso vedo se c’è posto. No, spiacente, è bloccato, non so che dirle”. E io, imboccato da Simona e Wanda da Bologna: “Provi un po’ su Monaco, che scommetto c’è qualcosa…”. E infatti salta fuori il posto, solo che per andare a Monaco l’aereo da Malpensa parte nel tardo pomeriggio, otto ore dopo quello per Francoforte. Accettiamo, tanto non ci sono soluzioni.

Lunga attesa in aeroporto e pensieri filosofici su chi ce lo ha fatto fare questo mestiere… Poi finalmente partiamo, arriviamo a Monaco, altra attesa di tre ore per Shangai e quando finalmente si sale a bordo dell’Airbus A340, fila 57, posto finestrino, scopriamo il nostro compagno di viaggio: un tedescaccio alto quasi due metri, 54 di piede, che si allarga e ci stringe contro il bordo dell’aereo. Viaggeremo 12 ore e mezza in quelle condizioni. Il tedesco non reagisce nemmeno ai calci negli stinchi, anzi, appoggia il suo piede direttamente sulla nostra caviglia e tira una gomitata mentre russa allegramente. Vorrei tanto aver vinto la guerra e ridotto il numero di tedeschi al mondo, mi viene da pensare, ma non cambia la situazione. Atterriamo a Shangai e la curiosità è tanta nello scoprire il nuovo mondo che Marco Polo aveva già raccontato otto secoli prima. Scendiamo dall’aereo, troviamo un cartello “Welcome F.1 media” e ci avviamo. Mostriamo il pass F.1 e ci danno la guida per Shangai: bella, a colori, con la mappa della città, dell’autodromo, gli alberghi, i ristoranti, i numeri dei consolati, delle autostrade e tutto il resto. Ha un solo difetto: è scritta tutta in cinese! Superiamo l’impasse e dopo il controllo passaporti andiamo al cambio valuta. Tutto il mondo è paese e anche qui l’impiegato tenta di fregarci nel cambio euro-yuan. Noi controlliamo bene e blocchiamo il tentativo di frode, un altro gruppo di italiani invece se ne accorge dopo e comincia a urlare. Nel mentre, nel gruppo, salta fuori un cinesino che in italiano perfetto dice: “Ma che vi lamentate, ma avete visto a Napoli come fregano la gente e venite qui a lamentarvi da noi?”. Il cinesino vive a Prato e parla perfettamente la nostra lingua e conosce i nostri, diciamo così, vizi…

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Presi i soldi, non possiamo prendere l’auto a noleggio perché agli occidentali è vietato guidare in Cina. Dobbiamo prendere l’autobus per l’hotel Galaxi. L’organizzazione aveva mandato un modulo in cui diceva che c’era una navetta dall’aeroporto di Pudong fino all’hotel. Proviamo a tutti i banchi degli hotel e dopo il 50 o 51 troviamo uno che ci dice di prendere l’autobus che ferma davanti all’hotel. Usciamo, troviamo l’autobus e saliamo. Mostriamo la cartina, l’indirizzo dell’hotel e l’autista ci fa sedere dopo aver preteso il pagamento del biglietto. Finalmente stiamo arrivando. La conferenza stampa del mattino della Ferrari ormai è persa, ma fa niente. Dopo la prima ora di autobus non si vede ancora la città, dopo un’ora e mezza finiamo in mezzo a un ingorgo da paura in una specie di sopraelevata che gira in tondo. Quaranta minuti di attesa per uscire da lì, poi l’autobus prende l’autostrada interna (oltre 200 km di anello) e va avanti ancora. Dopo oltre due ore di autobus vengo preso dal panico: dove accidenti sto andando a finire? A un certo punto, uscendo da Shangai, quindi dalla parte opposta della città, vedo di sfuggita un grattacielo con la scritta Galaxi e urlo all’autista di andare là. Quello si incazza e tira dritto. Io riurlo ancora e lui finalmente capisce, fa un giro larghissimo e mi scarica davanti all’uscita delle cucine, dove ci sono cumuli di spazzatura e un fetore incredibile. Prendo la valigia, entro e chiedo della reception. Finalmente, al secondo piano, incontro il primo barlume di civiltà occidentale. “Sorry, la aspettavamo stamani, invece non è arrivato e la stanza non c’è più”. E io che faccio? “Sorry”. Sorry un par de… ci siamo capiti. Lo deve aver capito anche il nostro addetto che finalmente ci sorride e dice: “Trovato stanza per lei, prego si accomodi”. Entriamo in camera, piano 27, buttiamo le valigie in terra, apriamo l’acqua della doccia e ci tuffiamo nella vasca. Alta appena 20 centimetri da terra, per cui allaghiamo tutto il circondario…

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Riprese le forze e visto che sono quasi 24 ore che viaggiamo, si pone il problema della cena. Ci sarà un ristorante. Scendiamo al piano terra, chiediamo lumi e ci fanno entrare in un grande self service. Mi servo, mi siedo, mi portano da bere, ma ho ancora fame anche perché quello che c’è da mangiare non è molto chiaro e per evitare problemi si va sul sicuro. Carne riconoscibile, frutta fresca, pane. Chiediamo il conto, ci guardano strano. Dico che voglio pagare, mi guardano come un marziano. Poi arriva una gentile signorina e mi presenta il conto, che scarico sulla camera. Era accaduto che invece di passare dall’ingresso principale, ero entrato dall’uscita e quindi, secondo loro, visto che ero dentro il ristorante, dovevo aver già pagato all’ingresso. Insomma, potevo farla franca, ma non mi sembrava il caso. Entro nella mia camera quando squilla il telefono: è Stefano Mancini della Stampa, appena arrivato anche lui e alle prese col problema ristorante. La sua storia sembra la fotocopia della mia, scendo felice di vedere un amico, qualcuno con cui dividere questa esperienza pazzesca. Troviamo un altro ristorante poco distante dalla sala principale. Chiediamo da mangiare e ci portano un menù dove non si capisce niente. Stefano chiede della carne o del pesce, la cameriera ci fa alzare, ci porta vicino a una vasca e ci fa vedere dei pesci. “Quale sceglie?” ma Mancini e il sottoscritto non se la sentono di uccidere un animale e ci si guarda in faccia un po’ schifati. La cameriera deve aver capito che volevamo qualcosa di particolare e apre una cassa dove ci sono tartarughe pronte da uccidere e fare in brodo, poi c’è un’altra cassa ma diciamo di no, prendiamo dell’insalata e una specie di frittura di calamari. Scoprirò in seguito che nella cassa che non abbiamo aperto c’erano i serpenti da fare in umido. Un collega li ha provati, dice che sanno di pollo ma con tanti ossicini in più…

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Superato l’ostacolo della cena, il giorno dopo si va in autodromo. L’hotel ha organizzato le navette, ma quando scendiamo scopriamo che hanno sbagliato a indicarci l’orario, per cui dobbiamo andare col taxi. Ce ne chiamano uno, ci fanno salire a bordo e consultano la piantina (quella in cinese) che ci hanno dato all’aeroporto. L’autista, una gentile signora coi denti a rastrello brutta come il peccato, non capisce, il cameriere le fa cenno con le mani, fa il segno del volante e fa brum brum con la bocca. L’autista non capisce ancora, ci prende la piantina e parte a razzo. Al primo bivio dell’autostrada ci chiede da che parte andare. E che ne so, è la prima volta che arrivo qui. Prende una strada, poi va dall’altra, dopo oltre un’ora arriviamo in zona autodromo. Attraversiamo una autostrada, vedo un cartello “F1 media parking” e faccio segno alla signora di andare in quella direzione. Non l’avessi mai fatto, in piena autostrada, tre corsie per lato, questa deficiente fa inversione di marcia poco prima di un dosso, ci schiva un autobus e un camion, nessuno che suona il clacson, perché a loro pare tutto normale. Quella accelera, le faccio segno con le mani di rallentare e quella pesta ancora sul gas. Scoprirò, con altri colleghi, che fare segno di rallentare con le mani in Cina significa il contrario, ovvero accelera. Passa gli incroci a raso aumentando l’andatura. Quando finalmente vedo l’autodromo. Bellissimo, spettacolare e stupendo, la faccio fermare, scendo e pago. Panico, non ha il resto da darmi, voglio lasciarle la mancia, ma rifiuta, in Cina è offensivo. Diventa matta per cambiare i soldi, aspetto 15 minuti prima che l’operazione riesca, poi mi dà lo scontrino fiscale e se ne va tutta allegra.

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Salgo finalmente in sala stampa, spettacolare, con ampie vetrate, al nono piano della torre che sovrasta il rettilineo principale, incontro altri colleghi anche loro sconvolti per quello che hanno vissuto nelle prime 24 ore. Niente al confronto dei ragazzi della Ferrari, che sono finiti in un hotel dalla parte opposta della città di Shangai e ogni mattina impiegano oltre 40 minuti per passare sotto al ponte che li porta in autostrada. Il clima è caldo, afoso e molto umido ma è niente di fronte al problema di andare a beccare i piloti nei loro box o nelle salette ospitalità, tutto troppo ampio, tutto troppo immenso e distante. Appena cala il sole si soffre di solitudine in quei paddock. Il ritorno in hotel è fatto con le navette dell’organizzazione. Abbiamo due autisti nei giorni a seguire: uno lo chiamiamo il fratello scemo di Schumacher, detto anche Ciretto o’ Biondo, l’altro, ribattezzato da Gaia Piccardi del Corriere della Sera, Furguncin. Sarà il più veloce della pattuglia, perché domenica sera, dopo la gara, ci porterà in hotel in appena 45 minuti, strappando applausi a scena aperta ai 10 giornalisti che hanno festeggiato lo scampato pericolo. Infatti, alla prima fermata sono scesi tutti e si sono fatti la strada restante a piedi pur di non avere nulla che fare con quella razza di deficiente del volante.

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Se i trasporti interni sono stati da antologia del terrore (chiedere a Ralf Schumacher o ai tecnici della Williams finiti in ospedale dopo un cappottamento), l’ospitalità è stata incredibile. Il sindaco di Shangai e il governatore hanno accolto tutti i giornalisti sulla cima della Pearl Tower, la torre della TV con ristorante annesso. Hanno organizzato uno spettacolo con musiche locali e attori mascherati. Poi, scesi dalla torre, tutti sugli autobus. Dopo 30 minuti di attesa, l’autobus ha svoltato l’angolo, 150 metri, per farci salire sui battelli e fare il giro turistico dove si vedevano gli edifici del Bund e si naviga sul ramo dello Yang Tze, il fiume azzurro, che attraversa Shangai. Tutto molto bello e caratteristico, come la settimana della festa della birra tedesca all’hotel Renassaince, con tanto di orchestrina cinese vestita da tedeschi e birra a fiumi. Shangai è una città di 16 milioni di abitanti da scoprire, il tempo offerto dal week end di F.1 troppo poco per capirne di più. Di sicuro il pianeta Cina sarà ricco di sorprese in futuro, come lo è stato il nostro viaggio. Stravolgente, faticoso, ma di certo non noioso.

Paolo Ciccarone

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