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Ferrari, il paradosso della Rossa: conti record ma in F1 non vince dal 2008

G ennaio 2016, una sfilata di supercar davanti a Palazzo Mezzanotte. Cielo di marmo, inverno a Milano, ma il rosso scalda cuori e conti. A Piazza Affari accende il motore il titolo del Cavallino (dopo il primo collocamento avvenuto qualche mese prima a Wall Street), c’è Sergio Marchionne insieme con l’allora premier Matteo Renzi a illustrare la strategia: la Ferrari deve essere considerata un marchio di lusso, non un costruttore di automobili.

Sette anni e mezzo dopo l’accelerazione di «Race», la sigla che identifica le azioni sul mercato, è stata vertiginosa. La capitalizzazione, oltre 58 miliardi di dollari, ha superato quella dell’intero gruppo Stellantis; i ricavi sono saliti dai 3,1 miliardi del 2016 ai 5,09 dell’ultimo esercizio, l’utile netto è più che raddoppiato da 400 a 939 milioni. Le consegne dagli 8 mila 14 pezzi hanno toccato quota 13mila 221, n umeri destinati ad aumentare con l’arrivo del Purosangue, il primo veicolo a ruote alte, da 390 mila euro in su.

Maranello non ha mai vissuto un’epoca così florida, nel primo trimestre la crescita a doppia cifra ha riguardato tutti i principali indicatori. La marcia verso nuovi record procede nonostante le incognite sul passaggio all’elettrificazione. Non poche per un produttore che ha costruito la propria leggenda su benzina e cavalli, «perché — come diceva il maestro Herbert Von Karajan— nessuna orchestra riuscirà mai ad eguagliare la melodia di un 12 cilindri Ferrari». Una Rossa a batterie è soltanto questione di tempo, è in programma per il 2025 e chissà che effetto farà. I soldi però non fanno la felicità ovunque. Non bastano ad assicurare vittorie in pista.

È l’altra faccia del Cavallino, una corsa accidentata e incapace di raggiungere il traguardo più alto. Il Mondiale di Formula 1: tanti millennial ignorano le imprese di Schumacher e di Lauda, i nuovi tifosi che hanno scoperto l’automobilismo grazie alla serie di Netflix «Drive to Survive» hanno visto prima Hamilton dominare sulla Mercedes e poi Verstappen sulla Red Bull. Gioie rosse? Rare ed effimere, l’ultimo campionato conquistato risale al 2008. Coppa costruttori, a portarla a casa è stato Stefano Domenicali, oggi a capo della F1. Dodici mesi prima il trionfo di Raikkonen nel Mondiale piloti. Dopo 16 anni la traversata nel deserto prosegue fra epurazioni e rivoluzioni.

Sono cambiati i presidenti (da Luca di Montezemolo a Marchionne, a John Elkann), gli amministratori delegati (da Amedeo Felisa a Louis Camilleri, a Benedetto Vigna) ma soprattutto sono cambiati gli uomini al volante della Scuderia. Da Domenicali alla meteora Marco Mattiacci, a Maurizio Arrivabene, a Mattia Binotto. Fino all’attuale team principal, il francese Fred Vasseur, impegnato in un processo di riorganizzazione, e ancora a caccia della sua prima vittoria in F1 per dare morale e segni di svolta a un gruppo che non conquista un Gp da più di un anno (Leclerc, Austria 2022). Una girandola di manager e di tecnici che ha finito per destabilizzare l’ambiente in un sport dove la programmazione di lungo periodo è fondamentale.

Qualche esempio? La Red Bull, capace di vincere dieci gare su dieci in questa stagione ha mantenuto lo stesso gruppo dirigente dell’ingresso in F1, nel 2005. Il responsabile è Christian Horner, marito della ex Spice Girl Geri Halliwell. E arcirivale del suo omologo in Mercedes, l’austriaco Toto Wolff, azionista e boss della Casa tedesca in Formula 1 dal 2013. Per la Ferrari ogni ricostruzione ha un prezzo da pagare che sposta inevitabilmente più in là i programmi, fra illusioni — questo campionato era partito con proclami ottimistici, puntando ai due titoli— e bruschi risvegli. Esattamente come nel 2016 quando era stato Marchionne ad alimentare speranze in base a dati (rivelatisi poi errati) della galleria del vento, con cui qualcuno lo aveva convinto sulla bontà del progetto.

Non è un tema di risorse, tecnologia, piloti: si tratta piuttosto di creare l’ambiente l’ideale per fare la differenza in una disciplina dove una modifica millimetrica su un’ala può regalarti un Mondiale.

Charles Leclerc (Getty Images)

La Ferrari deve tornare a essere il baricentro della F1 come lo è stata ai tempi di Montezemolo, quando negli anni ‘90, per rialzarsi da una crisi acuta portò a casa i migliori ingegneri e il miglior pilota (Michael Schumacher) per costruire uno squadrone imbattibile diretto con il pugno di ferro da Jean Todt. Ma i tempi sono cambiati: l’introduzione del budget cap — ogni team non può spendere più di 140 milioni di dollari ogni anno— complica le operazioni di mercato. Inoltre gli ingegneri di primissimo livello devono restare fermi almeno 18 mesi prima di entrare in un nuovo team, per evitare di travasare segreti. E negli ambienti inglesi —l’80% delle squadre ha sede nella F1 Valley, vicino a Oxford— si è sparsa la voce sulle porte girevoli (molto in uscita) di Maranello e non è semplice convincere i cervelli più raffinati a trasferirsi in Italia.

Ecco perché per il ritorno della Ferrari servirà altro tempo, insieme a passione e visione dei vertici, indispensabili per riuscire nelle corse. Dove i soldi non bastano, come non basta avere campioni del mondo: da Alonso (il più vicino all’obiettivo nel periodo di magra) a Vettel, al ritorno di Raikkonen. L’esempio a volte è dentro casa. C’e anche un’altra Ferrari da corsa, quella del Mondiale endurance che ha sbancato la 24 Ore di Le Mans al primo colpo dopo 50 anni di assenza. Organizzazione, metodo, e talenti. Per un nuovo inizio. Oltre i record finanziari.

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