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Mauro Forghieri – Il ricordo di Carlo Cavicchi

mauro forghieri – il ricordo di carlo cavicchi

Mauro Forghieri – Il ricordo di Carlo Cavicchi

Se ne è andato di notte, dormendo. Ha fatto tutto di corsa, come sempre nella sua vita. Mauro Forghieri è diventato leggenda prima ancora di diventare un uomo fatto e finito. Troppo giovane per arrivare tanto in alto, troppo vecchio per essere considerato ancora una mente pensante, di quelle che non smetti mai di ascoltare perché c’è sempre da imparare.

Sì perché Forghieri era uno che inventava ma anche uno che spiegava. Ho ripescato una vecchia fotografia con lui al Gran Premio del Brasile del 1989, lui genio della tecnica che perde tempo con un giornalista curioso come il sottoscritto per spiegargli a termini di regolamento le aree su cui si deve intervenire per rendere efficace una monoposto.

Ci sono molti modi per ricordare una lunga vita vincente, il più semplice è elencare la cronologia dei successi. Con chi ha vinto tanto serve solo dello spazio: ha cominciato nel reparto corse a soli 27 e se ne è andato una trentina di anni dopo perché non andava a genio a diversi personaggi dei piani alti della Fiat che nel frattempo si era comperata la Ferrari. In mezzo tanto, tutto il meglio della F.1 e delle vetture sport prototipo. Otto titoli mondiali costruttori e quattro titoli iridati per piloti.

Siccome ci ha legato una lunga amicizia, preferisco ricordarlo con ricordi personali che si limitano a suoi pensieri espressi nel corso degli anni, spesso con le gambe sotto una tavola e un buon bicchiere di lambrusco.

Senza mai dirlo apertamente, lui come tanti altri geni nei campi più disparati, si considerava il migliore ma si sentiva sempre in dovere di ricordare chi gli aveva permesso di diventare un numero uno, il numero uno. Ferrari quindi: Il Vecchio era un uomo di intuizione. Mi ha creato e, contrariamente a quanto è successo agli altri, non mi ha distrutto. Abbiamo avuto discussioni accese. Lui ha urlato e io più di lui, ma alla fine ci siamo trovati bene. Ha dato ai suoi collaboratori la massima libertà, spingendo all’innovazione. Mi ha insegnato che non bisogna mai ammettere la sconfitta, non certo in anticipo.

Lo chiamavano Furia per via di un carattere impetuoso e talvolta anche un po’ sopra le righe, ma lui ci rideva sopra. Ho dovuto gestire grandi meccanici e grandi piloti. Ho fatto loro vedere che mi sono arrabbiato, ma c’era anche un po’ di teatro. E aggiungeva Devi farlo anche tu in redazione, sembrerai un po’ stronzo ma i tuoi ti sentiranno più vicino a loro. Fatto.

Un giorno, parlando di alcune scelte coraggiose che aveva operato anche andando un po’ contro la logica del momento come il grande alettone posteriore montato in Spagna nel 1968 oppure lo strano concetto di monoscocca che aveva introdotto in Ferrari ben diverso da quello della Lotus ma parimenti efficiente in quanto a rigidità e molto meno costoso, mi rispose in maniera sorprendente per farmi capire che tutto può diventare possibile se non ci si ferma all’apparenza: Prendi il calabrone, che ha un corpo grande e piccole ali, secondo la teoria dell’aerodinamica non potrebbe volare ma poiché lui non lo sa, vola comunque.

Adorava i piloti che sapevano essere grandi collaudatori, Amon e Lauda su tutti. Sosteneva che se una vettura aveva gli stessi problemi per tre o quattro stagioni di fila era la prova che non la si sviluppava nella giusta direzione e quella era soprattutto colpa del pilota. Erano evidentemente anni differenti da oggi, però ancora una decina di anni fa se la prendeva con Fernando Alonso: Un pilota formidabile, ma non certo un buon tester. Ogni anno, quando gli veniva data una macchina, diceva che era tutto perfetto, poi qualche mese dopo iniziava a parlarne male. Il vero campione è colui che gestisce la squadra. Puoi avere simulatori all’avanguardia e i computer più avanzati, ma chi davvero giudica la macchina è il pilota in pista.

Non aveva mai digerito la morte di Gilles Villeneuve, conseguenza secondo tanti del trattamento avuto in pista a Imola la gara precedente a quella che gli costò la vita. Chi comandava le operazioni era Marco Piccinini e su di lui si è ripetutamente espresso senza giri di parole: Ferrari ormai era un vecchio, e Piccinini era diventato una sorta di custode del Commendatore. Ferrari non avrebbe mai permesso che il suo Gilles fosse trattato così, ma Piccinini era ambiguo e ambigue erano molte le sue decisioni.

La nostalgia per i suoi anni pionieristici non lo abbandonava mai, ma era entusiasmante il modo che usava per ricordare i tempi andati: Eravamo in 167, compresi Ferrari e il suo autista Peppino, e dovevamo tenere testa a tutti e in tutti i settori, perché le gare facevano pubblicità alle auto stradali, quelle GT che portavano soldi per correre; tutto era ridotto all’osso, spese controllate fino all’ultimo centesimo, tutti seguivano la missione, una grande famiglia, remando nella stessa direzione. C’era un’innata sensazione di appartenenza alla squadra, alla fabbrica. Non servivano incentivi, abbiamo fatto del nostro meglio per vincere, pronti a consolarci a vicenda nella sconfitta.

L’ultima volta che ci siamo incontrati, ed era diversi mesi fa, mi era parso sereno: Il golf e il mare mi aiutano a rilassarmi, ma finché sarò fisicamente in grado cercherò di tradurre in azione le cose che mi girano per la testa. Perché il computer è diventato padrone del mondo, ma senza le idee dell’uomo niente si muove. E ho tante idee.

Credo che la miglior sintesi su Forghieri l’abbia data qualche anno fa l’ingegner Gian Paolo Dallara, amico sin dai primi anni di lavoro: Mauro è il designer più completo mai esistito. Ha progettato le auto nella loro completezza, ha realizzato anche motori, tutti i tipi di motori, e poi ha corso in Formula 1, in Formula 2, nelle gare di durata e persino in gare in salita, sempre vincendo.

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