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Dacia Maraini: «Tra le iene in Africa la Callas mi si avvicinò e disse: voglio sposare Pasolini»

All’inizio del 1970 Dacia Maraini e Alberto Moravia raggiungono Pier Paolo Pasolini e Maria Callas a Dakar, in Senegal. Di lì si spostano in Costa d’Avorio e Mali.

Perché l’Africa? «Pasolini rincorreva il sogno di una mitica purezza in un luogo libero da borghesia e industrializzazione. All’inizio aveva identificato questa purezza con i contadini di Casarsa, il suo Friuli, poi, deluso, ha spostato questo sogno sul sottoproletariato romano. Infine, sull’Africa. Cercava inoltre ambienti per i suoi film. E poi eravamo molto amici, ci piaceva viaggiare insieme, vedere mondi straordinari».

In cosa consisteva la straordinarietà? «L’Africa nera è un’esperienza unica. Ci sono zone in cui l’uomo non ha mai coltivato la terra, dove resistono foreste tropicali di mille anni o si distendono dune di sabbia che si ripetono all’infinito. In Europa viviamo in un ambiente assoggettato dall’uomo. In Africa la natura ti sorprende, è dominante. Un poco fa paura con la sua forza, la sua presenza arcaica e misteriosa».

Come vi organizzavate? «Non organizzavamo. È quello il bello. Arrivavamo in aereo. Affittavamo una Land Rover. Poi, accompagnati da un autista africano, andavamo alla ventura, nei luoghi più remoti. Non ci è mai successo niente».

Com’era il Senegal? «Un Paese civile e ordinato in quegli anni. Dopo, l’Africa è cambiata per tre ragioni: il fanatismo religioso, l’AIDS e le guerre, allora non così diffuse».

La prima impressione su Maria Callas? «Ho capito che non era la diva dei palcoscenici. Si è presentata in blue jeans, scarpe da ginnastica, capelli a coda di cavallo, senza trucco. Mi ha fatto simpatia subito. Si è adeguata a tutto».

Si sentiva libera? «Forse. Era come una bambina spaventata, umile, intimidita da Pier Paolo, che considerava un maestro. Taceva, ascoltava. Era abituata a Onassis, uomo brusco, nei suoi racconti».

Cosa aveva trovato in Pier Paolo? «Un essere gentile, rispettoso, che l’ascoltava e aveva con lei una tenerezza straordinaria. Era felice, innamorata e sorpresa della dolcezza di Pier Paolo».

Era ricambiata? «Sul piano dell’affetto sì, ma non fisicamente. Una volta, per dormire, siamo finiti in una casa in cui si potevano affittare due semplici stanze senza bagno né nulla, con due letti ciascuna. Maria disse: “Io vado nella camera con Pier Paolo”. E lui: “No. Le donne con le donne e gli uomini con gli uomini”».

Avete condiviso la stanza? «Sì, ma per svestirsi faceva acrobazie. Si vergognava. Ho detto: “Non preoccuparti, esco”. Uscendo, si era vicini alla foresta. Ho sentito un odore tremendo e ho visto una iena. Le iene puzzano perché mangiano i cadaveri. Poi ne è arrivata un’altra. Mi sono spaventata. Sono rientrata precipitosamente. Maria era già a letto. Mi parlò di Pier Paolo».

Cosa disse? «Sperava di poterlo sposare. Io provavo a dirle che mi pareva difficile. Sapeva che era omosessuale, ma pensava di poterlo cambiare. Era dolcissima in questo sogno infantile. Nella vita era candida e ingenua».

Della Costa d’Avorio ha ricordi particolari? «La sensazione di un mondo immobile, uguale da tremila anni. Una percezione che colpisce i sensi e l’immaginazione. Lì l’uomo non ha mai contato niente, forse è passato a piedi, ma senza interferire con la natura. Poi la bellezza lunare. Sì, era come andare sulla luna, tra paesaggi mai visti».

La povertà vi impressionava? «Sì, però non era miseria. Le persone erano povere, ma in armonia con l’ambiente. Il villaggio si sosteneva con un pozzo e piccole coltivazioni di manioca, tapioca, patate. Vivevano come i loro avi, dei frutti della terra: cocco, ananas, avocado, banane. Con il miglio facevano il pane e la birra, buonissima fra l’altro, avevano il mango, tantissimo, anche noi lo mangiavamo continuamente».

E in città? «Lì la miseria era terribile, si sentivano gli effetti della colonizzazione. Ad Abidjan Alberto era impressionato dal nostro albergo, gli sembrava un grattacielo occidentale trasferito in Africa, lo definiva un museo inconsapevole di violenza economica, turistica e culturale. Anche lui poi non considerava gli africani diversi dagli europei, scriveva: “Sfruttando, schiavizzando, opprimendo l’africano, l’europeo ha in realtà sfruttato, schiavizzato, oppresso l’‘altro’ se stesso”».

Lei racconta spesso la diversità di Pasolini e Moravia. «Sì, ma si volevano bene. Per Alberto la ragione era uno strumento di conoscenza, per Pier Paolo no, contavano i sensi. Dico sempre che, tornati da un viaggio in India, Alberto scrisse Una certa idea dell’India, mentre Pier Paolo L’odore dell’India. Si compensavano».

Mai una disavventura? «Una volta ci si è fermata l’automobile nel nulla. Sfreccia all’improvviso una Mercedes da deserto. Dentro c’è un monsignore. Ci porta nella sua missione. Non sapeva chi fossero Moravia, Callas, Pasolini, in compenso conosceva i nomi di tutti i calciatori italiani. Per fortuna se l’è sciroppato Pier Paolo, esperto di calcio».

E lì? «Abbiamo dormito in cellette spoglie. Pensavamo di lasciare 200 dollari. Al mattino una cameriera a piedi nudi porta un biglietto del monsignore: “800 dollari”. Una tariffa da grande albergo. Ci tengo a dire però che altre volte abbiamo conosciuto sacerdoti straordinari, bravi, generosi».

C’è un suo documentario di anni dopo, Ritratti di donne africane. Cosa la colpì? «Parlavo con le donne. Ad Abidjan andai in una fabbrica di scatolette di tonno. È curioso che nelle città le famiglie si rompevano regolarmente ed era pieno di donne sole, le quali, giustamente, con tanti figli e pochi soldi, dividevano la casa con altre donne. Una faceva il pane, una si occupava dei panni, una dei bimbi, un’altra andava a lavorare. Era un modo di vivere solidale».

Gli uomini? «Non so che facessero. Le donne si occupavano di tutto: spazzine, operaie, venditrici. Nei villaggi invece le famiglie tenevano, anche se erano le donne a fare i lavori pesanti: raccoglievano e portavano la legna sulla testa in enormi fascine, facevano chilometri per prendere l’acqua nei marécage, se non c’era il pozzo».

Del Mali ha ricordi precisi? «Io non distinguo molto i Paesi dell’Africa nera nella memoria, perché i loro confini li hanno creati gli europei. Alberto scriveva che il destino degli africani è quello di camminare sempre in quell’Africa nera che appare come “un solo organismo”. Io pure l’ho vista come un insieme, fatto di politeismo e di popoli nomadi. La grande distinzione era tra Africa di mare, di campagna, Africa della foresta, commovente, bellissima. In un altro viaggio, forse in Congo, i pigmei mi hanno fatto piangere».

Perché? «Erano strazianti. Era come se recitassero una parte, sapendo che stavano scomparendo con la loro cultura. Li ricordo piccolissimi, a volte malati, con qualcosa di disperato nello sguardo, che mi ha dato un senso di fine, di dolore, di tristezza».

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