Nella ricerca del bene comune l’eredità di Moro
Particolarmente illuminante è il nuovo capitolo dell’Edizione dedicato al Moro che diventa segretario della Dc, quasi suo malgrado, senza essere un leader e senza ambire ad esserlo. A curare questa nuova sezione, corredata da un suo interessante saggio che sta per essere messo in Rete, è lo storico Paolo Pombeni. Emerge con chiarezza come a condannarlo ad abbracciare quella “croce” che lo porterà fino al martirio fu la sua autentica «ossessione» per l’unità (del partito, dei cattolici, del Paese) ossia per il bene comune, contro particolarismi e singole aspirazioni. Questo rese indispensabile il suo apporto di giurista autorevole ogni volta che la politica, agli snodi cruciali, rischiava di avvilupparsi, in un vortice di divisione e inconcludenza. « Ho sempre tremato di fronte a qualsiasi compito di responsabilità che mi sia stato affidato. Credo di non averne mai cercati, credo però di non averli mai rifiutati quando le circostanze potevano indicarmene il dovere», disse Moro. Alla segreteria della Dc resterà per 4 anni, fino all’avvento del centrosinistra, da lui stesso preparato, e l’incarico di presidente del Consiglio arriverà, per lui, ancor meno agognato, ma inesorabile come una condanna ulteriore.
Curioso, ma rivelatore di questa sua strategia da uomo “libero” sempre rivolta all’unità del partito, è il fatto che Moro a quel primo incarico di vertice, nel marzo 1959, vi arrivò da doroteo, sia pur “anomalo”: lui, uomo simbolo della “sinistra” Dc, fu infatti indicato dal fronte “moderato” che era contrario alle aperture a sinistra. I “dorotei” erano nati per scissione dal correntone di “Iniziativa democratica” che, implodendo, aveva spinto Fanfani a dimettersi in breve tempo dal “doppio incarico” alla guida del governo e anche del partito. Il termine fu coniato dal leggendario cronista parlamentare Vittorio Orefice in riferimento alla riunione tenutasi presso il convento delle suore di santa Dorotea al Gianicolo in cui si era saldato un fronte largo (Rumor, Piccioni, Gui, Scelba, Segni, Pella) che, sensibile alle resistenze nella Chiesa capeggiate dal cardinale Siri, era contrario all’apertura ai socialisti propugnata da Fanfani. Moro alla fine si astenne. Ma quello che apparve come un mezzo tradimento nei confronti del vecchio compagno di cordata della Costituente si rivelerà, viceversa, una volta subentrato alla segreteria, un aiuto formidabile offerto a Fanfani a combattere il suo più temibile avversario, ossia sé stesso e il suo carattere di aretino impaziente e impulsivo.
Subita, nel 1960, la fase breve e turbolenta del governo Tambroni, che aveva ottenuto la fiducia con i voti decisivi del Msi, finì ben presto per lasciare campo libero al ritorno di Fanfani a Palazzo Chigi con un monocolore Dc “protetto” da una delle storiche invenzioni di Moro, quella delle “convergenze democratiche”, definite “parallele” ironicamente da Eugenio Scalfari, in riferimento all’appoggio esterno di liberali, repubblicani e socialdemocratici, e alla benevola astensione di monarchici e socialisti. Il ritorno al governo valse a Fanfani il celebre nomignolo di “Rieccolo” coniato da Indro Montanelli. Si giunse così al congresso di Napoli del gennaio 1962, aperto da un intervento di Moro lungo stavolta ben sei ore, portò alla nascita al quarto governo Fanfani, ulteriore tassello della strategia morotea puntata verso il centrosinistra, ma sempre mantenendo l’obiettivo di tenere unita la Dc e il Paese, che poi era la vera ragione di quei suoi lunghissimi discorsi, per provare a parlare a tutti, e dissipare tutti i dubbi. Arriva, ora, l’appoggio esterno del Psi e il mancato sostegno dei liberali faciliterà il varo della contestatissima legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica, che, approvata sul finire dell’anno, farà da apripista al primo governo di centrosinistra organico. E sarà proprio Moro chiamato a guidarlo, nel 1963, dal momento che la personalità di Fanfani costituiva un ostacolo, annota il leader socialista Nenni nei suoi diari, in quanto « non mitiga ma esaspera la suscettibilità di alcune personalità del governo».
In quel lunghissimo discorso Moro toccò, senza nascondersi, anche il tema dei rapporti con la Chiesa. Il suo intento era «non impegnare in una vicenda estremamente difficile e rischiosa» la sua «autorità spirituale», puntando sulla «autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica» la cui «assunzione di responsabilità», diventa «una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale». Fanfani si dimette da capo del governo nel maggio 1963: Moro convoca un Consiglio nazionale urgente e capisce che tocca a lui. Si rivolge nel passaggio decisivo alle correnti interne: « Io vi chiedo ora, ma io vi scongiuro, amici, di avere il senso della misura, di avere senso della responsabilità, di sacrificare ogni particolarismo e risentimento all’unità e alla forza morale, prima che politica, della Dc», disse, commosso fino alle lacrime. Fanfani annota nel suo diario: « Lo abbraccio per consolarlo».
Ma sarebbe davvero ingeneroso attribuirgli la furbizia di aver voluto portare tutti dove voleva lui. « Il suo – spiega Pombeni – fu un lavoro pedagogico, che aveva l’obiettivo vero di portarsi dietro il Paese». La sua vera ossessione, proiettata al perseguimento del bene comune, restò l’unità, fino all’ultimo. Nel giugno 1977, nel pieno degli anni di piombo in un’intervista al mensile di Cl Litterae communionis negò che esistessero due anime contrapposte nella Dc e parlò di «sostanziale unità di intenti» in cui «prudenza e coraggio si equilibrano in una sintesi che dà alla Democrazia Cristiana la capacità di una presenza, costruttiva e significativa, nella vita nazionale». Così, anche nelle ultime ore da uomo libero, si accingeva a votare la fiducia al governo di solidarietà nazionale con l’appoggio del Pci al quale aveva lavorato, indicando per la sua guida il leader della parte più resistente, ossia Giulio Andreotti. Fino all’ultimo con l’obiettivo di tenere unita la Dc e, attraverso essa, il Paese.