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Un taxi chiamato desiderio: da Roma a Napoli, code di clienti in attesa e corse con prezzi da capogiro

Quando un produttore accorto come David Zard doveva lanciare un nuovo musical, invitava alla prova generale soltanto i tassisti: «Portate chi volete, seguirà rinfresco». Il messaggio implicito era: se lo spettacolo vi piace, parlatene bene ai clienti. I tassisti sono una categoria potente, e non solo perché compatta e refrattaria a qualsiasi innovazione, fosse anche solo concedere qualche licenza in più. Sono rimasti tra i pochi a vivere in mezzo alla gente, a parlare con le persone, a far partire i passaparola. Possono bloccare le città; e possono veicolare idee, anche politiche. Meglio non toccarli. Con questa logica, però, abbiamo distrutto il servizio taxi.

Le code

A Roma la situazione è drammatica. Code infinite fuori dalle stazioni, a qualsiasi ora, in qualsiasi giorno, con qualsiasi tempo. Code pure a Fiumicino e Ciampino, con corsa ad accaparrarsi lo straniero ignaro e a lasciare a terra l’italiano. Centralini che non accettano prenotazioni, attese infinite al telefono, app che rispondono sempre: «Siamo spiacenti non abbiamo auto in zona». A Firenze la situazione non è molto diversa. A Milano e Napoli è appena migliore. Ma la questione non riguarda solo le grandi città: anche a Parma, a Verona, a Padova accade che ci siano code di clienti in attesa del taxi, anziché — come in tutto il mondo — code di taxi in attesa di clienti. (Quanto a Palermo, le ultime due volte che ho preso un taxi aveva il sedile reclinato per nascondere il tassametro e farmi pagare anche la corsa precedente; ma sarò stato sfortunato).

La causa

La causa è evidente: mancano taxi; Uber di fatto in Italia non è mai arrivato, si appoggia agli Ncc (noleggio con conducente) o addirittura agli stessi taxi, quindi il numero di auto pubbliche resta lo stesso. I tentativi di trovare una soluzione d’intesa con i tassisti sono miseramente falliti. Il governo di destra li protegge; e i sindaci di sinistra hanno paura di metterseli contro. Intendiamoci: i tassisti fanno bene a difendere una categoria di artigiani e padroncini dalla proletarizzazione che ne deriverebbe se diventassero dipendenti di una multinazionale. Ma la difesa degli interessi di parte si può giustificare fino a quando non lede gli interessi pubblici e i diritti degli altri. Se una persona non autosufficiente non trova un taxi per andare in ospedale, per un esame o per visitare una persona cara, non c’è interesse di categoria che tenga: occorre intervenire. Conosco l’obiezione: il problema dei taxi riguarda un’élite, non a caso a Roma protestano i «Vip»: Pippo Baudo, Nancy Brilli, Enrico Montesano. Nulla di più falso; e non solo perché Baudo, Brilli, Montesano sono artisti amati dal pubblico che generosamente espongono la loro immagine per porre un problema che riguarda tutti. La domanda di taxi non è fissa. Se i taxi si trovassero più facilmente, anche quando piove o c’è lo sciopero dei mezzi o c’è la partita, più persone li prenderebbero. Invece si è tentato — invano — di risolvere il problema aumentando, anziché il numero delle vetture, il prezzo delle corse; che sono ormai più care che a New York.

All’estero

In tutte le grandi città del mondo, la presenza dei taxi è misura della forza della classe media, di quel ceto che un tempo si sarebbe chiamato borghesia. La città delle auto pubbliche per eccellenza è Londra; a Madrid e a Barcellona il servizio è efficiente ed economico; anche a Parigi la situazione è molto migliore che in Italia. A Mosca i taxi sono pochi, perché la classe media è debole: i ricchi viaggiano in Suv con autista e scorta; gli altri in metropolitana, che se non altro a Mosca — a differenza che a Roma — funziona. La scomparsa dei taxi è poi l’effetto collaterale di un altro fenomeno. Da qualche anno ormai la primavera e l’autunno rappresentano per l’Italia il picco della stagione turistica. Non siamo abbastanza bravi — tranne eccezioni — a valorizzare d’estate le nostre coste come meriterebbero. Ma a maggio e a ottobre, con il Medio Oriente e il Nord Africa non ancora tornati ai flussi del passato, le nostre città sono prese d’assalto. E non sono più nostre. Non solo a Positano o a Capri, ma pure nel centro di Venezia, Firenze, Roma, financo Napoli ti parlano in inglese, e se dici che sei italiano ti rispondono «sorry». Hotel che fino a qualche anno fa il ceto medio poteva ancora permettersi hanno ora prezzi proibitivi. C’è un albergo nel centro di Firenze dove su 59 impiegati uno solo è italiano; sono più rappresentate la Mongolia e l’Afghanistan, e tanti ti parlano in inglese non soltanto perché i clienti sono quasi tutti americani, ma perché non sanno l’italiano. Anche nel centro di Milano hanno aperto ristoranti che espongono il menu soltanto in inglese: una cosa che non avviene in nessun Paese del mondo. I centri storici si svuotano di abitanti, si affitta la casa di nonna per spostarsi in periferia, e infatti in questi giorni si vedono americani con trolley giganteschi che camminano sotto il sole cocente guidati da Google Maps — anche loro non hanno trovato taxi — verso l’appartamento affittato su Airbnb. Tra i suoi gloriosi primati, Roma ha anche quello di essere l’unica città percorsa sia dalle carrozzelle con i cavalli come a Marrakech sia dai pullman turistici a due piani come a Los Angeles, oltre a tandem, golf-car, monopattini e ogni sorta di veicolo rigorosamente lanciato contromano quando non sui marciapiedi. Da Venezia in giù i nostri centri storici stanno diventando luna park. E nei luna park non esistono taxi.

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