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Quali sfide devono affrontare il resale di lusso e la moda second hand?

Resale e second hand rappresentano un mercato in costante espansione. Basti pensare che, secondo le ultime previsioni di ThredUp e GlobalData, entro il 2027 sembra destinato a raggiungere un valore di 350 miliardi di dollari a livello globale (con 70 miliardi solo negli Stati Uniti), circa il doppio rispetto a quanto stimato lo scorso anno. Le potenzialità sono tante, per i brand che possono sfruttare la rivendita per ampliare la propria audience di riferimento arginando la perdita della fascia di reddito medio (che, visto il momento di crisi economica, taglierà in modo significativo l’acquisto di beni di lusso nuovi e a prezzo pieno), per i clienti che possono comunque permettersi l’oggetto del desiderio senza troppo impatto sul portafoglio, per gli intermediari ovvero le piattaforme di rivendita online che stanno proliferando. Non è però tutto oro quel che luccica.

quali sfide devono affrontare il resale di lusso e la moda second hand?

Le sfide del resale

Innanzitutto, quando si tratta di beni di lusso di seconda mano è sempre difficile verificare l’autenticità del prodotto venduto. Per quanto le piattaforme di resale si impegnino a richiedere certificati, nessun rivenditore è davvero in grado di garantirla al 100% e rimane sempre un margine di errore. Se il prodotto, una volta ricevuto, dovesse dimostrarsi contraffatto o non conforme a quanto dichiarato nella descrizione in fase di vendita online, si è solitamente assicurati e si potrà chiedere un rimborso, ma l’esperienza di acquisto sarà ormai stata irrimediabilmente compromessa.

Sono molti poi i casi in cui l’intera trattativa rappresenta una perdita piuttosto che un guadagno. Mettere in vendita un prodotto richiede tempo e denaro: c’è bisogno di catalogare l’inventario, scattare le foto, editarle, caricarle sul sito, aggiungere una descrizione, gestire la spedizione e quant’altro. Naturalmente, quando si tratta di articoli di lusso la redditività è assicurata, il vero problema emerge quando invece entra in gioco il fast fashion. Se su piattaforme come Vestiaire Collective girano soprattutto articoli di lusso, su altre come Vinted e Depop — le più in voga tra i giovanissimi — proliferano articoli spacciati come vintage e, di solito, “no brand”, che semplicemente provengono da H&M, Zara, Shein. Winmark Corporation, proprietaria della catena Plato’s Closet e altri negozi di seconda mano, ha dichiarato a Business of Fashion di vendere più di 100mila articoli di fast fashion alla settimana. E, anche se sulle prime potrebbe sembrare una soluzione pratica per rimettere in circolo quei prodotti che altrimenti finirebbero in discarica, purtroppo la realtà è più scomoda e il fast fashion è in grado di far danni anche quando è di seconda mano.

Nella maggior parte dei casi infatti la vendita di capi che si aggirano intorno ai 5/10 euro non giustifica le spese di spedizione e inserzione e, soprattutto, le conseguenze ambientali del trasporto. Senza contare che il consumo di fast fashion “nuovo” non accenna a diminuire, a prescindere dalla sua presenza o meno sulle piattaforme di resale e che rivendere prodotti di scarsa qualità non fa che posticipare le conseguenze dello smaltimento senza offrire una reale soluzione: presto o tardi questi capi finiranno comunque per alimentare le discariche perché le fibre sintetiche che li compongono non li rendono adatti al riciclo. Se fotografare, catalogare e conservare in magazzino un capo estremamente economico e uno di lusso ha lo stesso costo, diverse piattaforme non vedono il valore nella vendita di fast fashion e cercano di arginarla nei limiti delle loro capacità. È il caso di ThredUp, che ha da poco escluso marchi come Shein, Old Navy e Missguided dalla lista di quelli che garantiscono un compenso agli utenti che li invieranno, e di Vestiaire Collective, che l’anno scorso ha bandito i marchi di fast fashion dichiaratamente per prendere le distanze dall’atteggiamento iper-consumista che guida il consumatore verso l’acquisto e la ricerca di capi di questo tipo. Il fast fashion però è difficile da contrastare. Shein, ASOS, Uniqlo sono solo alcuni esempi di brand che hanno lanciato i propri portali di resale. Una bella iniziativa, se non fosse che in molti casi l’utente che invia i propri capi per rivenderli riceve in cambio un coupon o uno sconto da riutilizzare sui nuovi prodotti del marchio in questione, finendo così per alimentare il business principale. Insomma, in molti casi purtroppo il resale sta funzionando come iniziativa lava-coscienza.

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Un’altra cosa da prendere in considerazione è il fatto che, quando si parla di articoli di seconda mano, il negozio fisico funziona ancora molto bene — anzi, in molti casi decisamente meglio della rivendita online. Tra le motivazioni che spingono i clienti ad acquistare vintage e second hand c’è infatti ancora una ragione legata al piacere della scoperta, alla curiosità e al divertimento che deriva dal processo di ricerca, da quel rovistare per ore in mezzo grucce e scaffali disordinati per riemergere con un tesoro nascosto. Se ci aggiungiamo poi il fatto che in questi casi provare il capo diventa essenziale, dato che non esistono taglie alternative con cui eventualmente cambiarlo e (spesso) neanche possibilità di ricevere un rimborso, va da sé che il negozio fisico è ancora lontano dal venire soppiantato dal virtuale. Infine, rimane determinante il grado di coinvolgimento ancora limitato del settore lusso. Per tutti i brand che hanno capito la potenzialità del resale ne esistono altrettanti che riaffermano l’importanza di vendere prodotto nuovo piuttosto che usato, tra questi anche LVMH, le cui scelte hanno sempre un impatto importante sull’industria.

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