Mirafiori, tutto e (ancora) niente. Alla maxi fabbrica serve un’idea
Un potenziale enorme, ma anche un limite:la grande fabbrica oggi è tutto, ma anche niente. Perché in un settore al centro di una permanente transizione tecnologica, industriale e geopolitica quello che più serve a uno stabilimento è un progetto, una priorità, un’identità chiara. Mirafiori ne è orfana da almeno un decennio. Un vuoto capace di riavvicinare anche i sindacati: venerdì per la prima volta in quindici anni torneranno in piazza tutti insieme, i metalmeccanici di Fiom, Fim, Uilm, Fismic ma anche l’Associazione dei quadri, in una mobilitazione generale che ha già catalizzato l’appoggio di istituzioni, società civile e sigle di altri comparti.
Tra forma e sostanza
L’obiettivo dello sciopero è chiaro: pretendere da Stellantis maggiore chiarezza su quali siano i piani per Mirafiori. In realtà, come ha dimostrato anche il gioco delle parti a cui si è ridotto l’incontro di mercoledì scorso al ministero del Made in Italy, la questione non è di trasparenza ma piuttosto di sostanza: dal punto di vista strategico il sito torinese, al momento, è in stand by. E vive dei tanti ma non risolutivi (almeno per ora) programmi in corso.
Fino ad allora Mirafiori dovrà consolarsi con le produzioni in corso. La meccanica (800 addetti) ha in carico alcune lavorazioni relative alla Panda endotermica, nelle carrozzerie (2.300) e sulle Presse collegate (320) si opera sul coupè e sulla spider di Maserati (10-12 auto al giorno) e soprattutto sulla 500 elettrica, proiettata su 40mila pezzi in tutto il 2024.
La querelle incentivi
Proprio sulla piccola di casa Stellantis si consuma da oltre un anno un aspro confronto tra l’azienda e il Governo, con la prima che rivendica le promesse ancora non mantenute in tema di incentivi all’elettrico e il secondo che chiede di elevare a 200mila auto l’anno la produzione di Mirafiori. Difficile pensare che i bonus pubblici possano portare a un’immediata corsa agli acquisti della 500 elettrica (135 modelli venduti a marzo in Italia), ma il braccio di ferro che ormai va avanti da oltre un anno conferma la strutturale difficoltà delle istituzioni a trattare al rialzo con il gruppo. E quando ci si siede al tavolo è dialogo tra sordi: «Torino sarà sempre è il cuore pulsante di Stellantis», ha detto il responsabile degli affari istituzionali del gruppo la settimana scorsa davanti al ministro Urso e alle istituzioni locali, durante un incontro che ha lasciato tutti con più domande che risposte. E pensare che le condizioni per un potenziale rilancio ci sarebbero: il settore macina utili (18,6 miliardi di euro quelli di Stellantis nel 2023), il governo ha bisogno di giocarsi qualche carta sul tavolo della politica industriale, a Torino c’è un sindaco Pd, Stefano Lo Russo, ingegnere che va d’accordo con un pragmatico presidente di Regione, Alberto Cirio, quasi certo della rielezione per Forza Italia, e anche al vertice delle associazioni industriali ci sono imprenditori che di auto se ne intendono per esperienza diretta.
Le parole e il declino
L’ultima esperienza del genere risale al 2005, in condizioni decisamente più avverse, quando gli enti locali acquistarono 200mila metri quadrati parte dell’area di Mirafiori per 70 milioni e al contempo l’allora gruppo Fiat insediò una nuova linea di produzione della Punto da 100mila pezzi l’anno: una specie di partita di giro, più in difesa che in attacco, ma funzionò. Oggi non c’è più Sergio Marchionne, che di lì a un paio d’anni avrebbe deciso di salvare un altro stabilimento dalla chiusura, Pomigliano, ma Fiat è diventata Stellantis e il mercato è quello globale.
Il fattore tempo
Un campo troppo largo, per la vecchia Mirafiori? «Le risorse ci sono ancora, basterebbe che uno solo degli interlocutori al tavolo osasse uscire dalla solita, sterile dialettica» ragiona Igor Albera, segretario della Fim Cisl torinese. Che ha un’ossessione che sa di incubo: il tempo. «L’età media degli addetti di Mirafiori è intorno ai 50 anni, senza una discontinuità la fabbrica è condannata a uno svuotamento naturale entro i prossimi 5-6 anni». A quel punto, dice, Mirafiori si chiuderà da sola.
Il problema è che per gestire e non subire il fattore tempo – in attesa del grande progetto – servirà anche qualche novità, rilevante e immediata, sulla produzione. Per evitare altra cassa integrazione, per tener vivo l’indotto, per aggredire i costi fissi di un impianto formalmente esteso su due milioni di metri quadrati. Al riguardo avrebbe fatto comodo l’insediamento della joint venture con i cinesi di LeapMotor, che pare però aver preso la strada della Polonia; domani, lo stesso Tavares – che incontrerà anche in sindacati – dovrebbe snocciolare alcune possibili alternative. C’è chi sperava che a Mirafiori potesse far tappa la Cinquecento che dalla Polonia è diretta all’Africa, ma in questo caso la partita più che persa è inutile.
Tutt’altro discorso è legato alla futura 500 con motorizzazione ibrida, destinata a essere ricavata da quella elettrica: se si farà può ambire a una produzione di 100mila pezzi l’anno, e l’unica fabbrica possibile sarà Mirafiori. Ma si farà? Sì, no, forse. Le variabili sono tante: le regole, il mercato, soprattutto il grande foglio excel con costi, ricavi e margini sulla base del quale Carlos Tavares prende le sue decisioni. Vista la componente volumi e quella sviluppo, potrebbe essere il progetto che Mirafiori aspetta, e su cui il fattore ecosistema, nazionale e locale, può essere decisivo. Anche se il ministro Urso, a Torino, ci arriverà giovedì e non domani.