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Perché fu occupata la fabbrica Fiat di Mirafiori, 50 anni fa gli operai si presero il potere

perché fu occupata la fabbrica fiat di mirafiori, 50 anni fa gli operai si presero il potere

SCIOPERO A TORINO

Cinquant’anni fa, il 29 marzo 1973, la Fiat Mirafiori, il più grande stabilimento industriale d’Italia, fu occupata dagli operai. Non succedeva dal 1920. Non sarebbe più capitato. Gli operai scelsero la forma estrema di lotta da soli, senza attendere le disposizioni né dell’Flm, che riuniva i sindacati metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil, né della sinistra extraparlamentare, che pure a Mirafiori era incisiva.

Al culmine di una vertenza durissima, che si prolungava da sei mesi e fu probabilmente il conflitto più aspramente combattuto negli anni della grande rivolta operaia in Italia, furono gli operai in totale autonomia a coprirsi il viso con i fazzoletti rossi, per non essere riconosciuti e licenziati, e a bloccare tutti i cancelli della mostruosa città-fabbrica. Il giorno dopo, 30 marzo, su tutti i cancelli di Mirafiori sventolavano le bandiere rosse, tutti erano presidiati in forze dai “fazzoletti rossi”. L’azienda rispose con un comunicato minaccioso: «Di fronte agli episodi di occupazione avvenuti il 29 e il 30 marzo la Fiat ha deciso di chiedere l’intervento dell’autorità giudiziaria per essere reintegrata nella piena disponibilità degli stabilimenti occupati». L’occupazione invece proseguì, solo sulla carta il primo aprile, giorno di festa, concretamente, pur consentendo l’entrata dei dirigenti, il 2 aprile. Una settimana dopo fu firmato il contratto.

Nell’esaltazione del momento alcuni considerarono quel contratto “un bidone”. Fu invece l’accordo migliore mai strappato dagli operai metalmeccanici e segnò il livello più avanzato di contropotere nella gigantesca fabbrica che, sino a quattro anni prima, era stata il simbolo stesso della sconfitta operaia. A Mirafiori non si scioperava mai, neppure nelle settimane quasi insurrezionali che nel ‘60 avevano abbattuto il governo Tambroni. A Mirafiori il sistema di potere creato da Vittorio Valletta, basato su una disciplina ferrea combinata con un welfare avanzato, aveva schiacciato per oltre 15 anni ogni forma di conflittualità. A Mirafiori, nel ‘68, solo 556 lavoratori su 50mila aderivano alla Fiom, il sindacato metalmeccanico della Cgil, e i comunisti erano ancora meno: 218. L’esplosione improvvisa e del tutto imprevista della primavera ‘69 rovesciò il quadro in poche settimane, facendo di Mirafiori l’epicentro del conflitto sociale in Italia. La vera e propria battaglia combattuta tra l’ottobre 1972 e l’aprile 1973 sancì un contropotere operaio che fu sconfitto solo dopo 7 anni, nel 1980.

Quel conflitto senza precedenti è stato quasi cancellato da una memoria che riduce gli anni ‘70 alla lotta armata e la rivolta operaia all’autunno caldo del ‘69. Lo racconta ora un libro di Chicco Galmozzi, all’epoca militante di Lotta continua e operaio alla Breda di Milano, poi tra i fondatori di Senza tregua e Prima linea, Marzo 1973, Bandiere rosse a Mirafiori (DeriveApprodi, 2023, pp. 128, euro 14.00). Quella di Galmozzi è un’analisi dell’intero ciclo 1968-73. A partire dalle prime insorgenze del ‘68, che non fu solo studentesco, e dalla rivolta improvvisa del ‘69 sino ai fazzoletti rossi del ‘73, Galmozzi analizza le radici della nuova conflittualità operaia. Le rintraccia in una composizione di classe trasformata dall’ingresso di decine di migliaia di giovani neoassunti e in una radicale spinta antiautoritaria e antigerarchica che minava dalle fondamenta il sistema militarizzato vallettiano. Indica nella domanda di egualitarismo la leva che, partendo dalle condizioni materiali, arrivò in pochissimi anni a mettere in discussione non solo il comando in fabbrica ma l’intero sistema capitalista di produzione. Insiste sull’uso della forza, che a Mirafiori fu continuo da una parte e dall’altra e che fu essenziale per la costituzione di quel contropotere.

Il libro è corredato da una lunga cronologia, molto dettagliata non solo giorno per giorno ma anche reparto per reparto, redatta a caldo da un collettivo di operai Fiat. Va dal 20 settembre 1972, col primo sciopero in anticipo sull’apertura ufficiale della vertenza contrattuale, alla conclusione della stessa. L’analisi dell’autore va letta nel quadro di quella cronaca. A rendere quella vertenza così estrema e spesso violenta furono le diverse poste in gioco messe sul tavolo dalle due parti, illustrate in controluce anche dalle opposte ipotesi di contratto. Dopo tre anni di conflittualità permanente la Fiat mirava a stroncare la forza operaia: per questo aveva assunto decine di fascisti in funzione più di mazzieri e spie che di operai, stretto accordi con la questura che intervenne a ripetizione e con la mano pesante, aveva scelto di ricorrere alle maniere forti con licenziamenti continui, denunce, minacce esplicite, cancellazione della mutua, sospensioni della produzione contro gli scioperi articolati che paralizzavano la catena minimizzando il costo per i lavoratori. L’obiettivo esplicito di Federmeccanica era domare l’assenteismo, bloccare la spinta egualitaria, evitare aumenti del costo del lavoro, fermare una volta per tutte la mobilitazione continua, che dal ‘69 aveva determinato uno stato di “conflittualità permanente”.

Gli operai chiedevano l’inquadramento unico, cioè la fine del sistema basato su qualifiche e categorie per dividere il fronte operaio, un sostanzioso aumento uguale per tutti, la riduzione dell’orario di lavoro, un monte ore da dedicare allo studio in un momento in cui l’analfabetismo era ancora un problema reale. Non si trattava solo della classica contrapposizione tra piattaforme contrattuali propria di ogni rinnovo contrattuale. La sfida era politica. Per Fiat e Federmeccanica si trattava di ripristinare in fabbrica l’ordine travolto nel ‘69. Gli operai miravano a estendere il contropotere all’interno della fabbrica. La mediazione, dal punto di vista della posta politica, era impossibile. La ricostruzione di quei mesi è dunque quella di una battaglia fatta anche di continui scontri fisici, di attacchi fascisti e rappresaglie operaie, di cortei interni che spazzavano i reparti prendendo di mira crumiri e capireparto, di repressione feroce da parte sia dell’azienda che della questura. Nel complesso pochissimi libri riescono come questo a restituire la realtà di quello che è stato il conflitto sociale in questo Paese, e dunque anche della vastità del terremoto che lo rimodellò in quei cinque anni.

Il contratto firmato dopo il blocco della merce del 28 marzo, forma di lotta che gli operai non avevano mai adottato sino a quel momento, e dopo l’occupazione di Mirafiori fu vincente: inquadramento unico, aumento di 16mila lire al mese uguale per tutti, orario lavorativo ridotto a 39 ore settimanali, una settimana in più di ferie, riconoscimento del diritto allo studio con 150 ore retribuite da dedicare alla formazione nell’arco di un triennio. Su un piano più strategico fu respinta la controffensiva aziendale che mirava a ricondurre all’ordine con ogni mezzo l’insubordinazione in fabbrica. L’ “ultima vittoria operaia”, come la definisce Galmozzi.

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