Inquina meno di un quattro cilindri e ha la "schiena" di un vero 3.3L a sei cilindri. Consuma poco e dà grandi soddisfazioni, alla guida e alla pompa
La Mazda CX-60 è la nuova ammiraglia che rivoluziona totalmente l'approccio costruttivo della linea attuale perché, oltre ad un design maturo e per quanto mi riguarda riuscito, si basa su un'architettura completamente nuova. Una piattaforma che ospita motori longitudinali, quindi di base una trazione posteriore, e che ora insieme all’ibrido plug-in viene offerta con questa motorizzazione veramente interessantissima: il 3.3L Turbodiesel a 6 cilindri in linea con modulo ibrido mild a 48 volt, con l'ormai nota nomenclatura e-SkyActiv D.
Disponibile nella configurazione SP da 200 CV per 450 Nm – protagonista della nostra prova video – e nella HP da 249 CV per 550 Nm di coppia, la sua vera forza sta nel valore delle emissioni: la SP è capace di tenersi sotto i 130 g/km di CO2, vale a dire un buon 20/30 grammi in meno ad ogni chilometro di molte concorrenti diesel 2.000 a quattro cilindri e anche 40 grammi in meno del 2.2L Diesel a quattro cilindri montato da Mazda stessa sulla più piccola CX-60.
La risposta sta nell’equilibrio, secondo Mazda. La casa di Hiroshima ci ha insegnato già con la MX-30 che “il troppo stroppia” montandole una batteria di dimensioni giuste, e ora ce lo ripropone con la CX-60 che per la sua stazza e per la sua filosofia progettuale, aveva bisogno di un 6 cilindri. E per renderlo così pulito, entra in gioco una nuova sigla di quelle che a Mazda piacciono tanto: DCPCI.
La forma del pistone permette di non far accendere spontaneamente il gasolio in anticipo garantendo una sorta di “zona fredda”, utile perché in compressione il combustibile possa scaldarsi verso la combustione ma solo dopo aver già riempito per bene il cilindro. Seguono poi altre quattro iniezioni distinte ma rapidissime di gasolio da parte dell’iniettore, che lavora a pressioni fino a 2.500 bar – che per darvi un’idea, significa avere una pressione di oltre 2,5 tonnellate per ogni centimetro quadrato dell’iniettore stesso.
E allora, perché non sfruttare questo sistema su un 4 cilindri e limitare fisicamente l’apporto di carburante massimo? Semplice, per una questione di “stress”: estrarre 450 Nm da un 2.0L a quattro cilindri è fattibile, così come portarlo al 40% del rendimento energetico dato che il sistema spiegato qui sopra è singolarmente presente su ogni pistone, ma significa richiedere un grosso sforzo a un motore sostanzialmente sottodimensionato. E avere troppo sforzo, significa ridurre l’effettiva sfruttabilità del rendimento.
In altre parole, un 6 cilindri può lavorare “meno affaticato” e dunque garantire quel 40% di rendimento termico per un range di regimi ben più ampio, rispetto a quanto potrebbe fare un 4 cilindri. E come conseguenza, nell’uso ordinario e non esageratamente attento, consumi ed emissioni migliorano sensibilmente rispetto a un classico motore a quattro cilindri – tutto a favore non solo dell'utente, ma anche del pianeta.
Ne è una prova il già citato valore sotto i 130 g/km di CO2, ma anche il dato sui consumi dichiarati nel ciclo combinato WLTP pari a 5.0 L/100km – di fatto il 24% in meno della più piccola e leggera CX-5 con il 2.2L Turbodiesel a quattro cilindri, che nelle stesse condizioni dichiarava 6.6 L/100km. E vi garantisco, come vi racconto meglio in video, che è fattibilissimo raggiungere quel risultato… ed è anche piuttosto semplice fare di meglio, con un po’ di attenzione.
Mazda CX-60
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