Per abbassare l'impronta di carbonio dei veicoli serve anche l'aiuto di chi produce componentistica, spesso anello debole della catena
- Sinergie o scaricabarile?
- Chi paga per il progresso
- Il calo dei volumi e il costo della sostenibilità
Alimentare le fabbriche con energia pulita e dotarle di processi efficienti a basse emissioni di CO2 può non bastare per assicurare alle auto una “carta d’identità ambientale” immacolata. Sul pedigree di un veicolo pesa infatti ogni singola attività che è servita a produrla, e questo include anche i fornitori esterni.
I costruttori lo sanno bene e oggi, oltre ad affrettarsi a rendere climaticamente neutri i loro impianti, stanno facendo pressioni sempre maggiori sulla catena di approvvigionamento per avere garanzie. Ma la soluzione non è sempre facile.
Sinergie o scaricabarile?
La maggior parte dei costruttori recentemente ha annunciato almeno una volta di stare “lavorando con i propri fornitori” per arrivare entro le scadenze (in prevalenza il 2030), ad avere una “supply chain” interamente certificata e allineata agli obiettivi di riduzione delle emissioni.
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Non tutti, però, vanno così a braccetto con le ditte esterne: anzi, qualcuno inizia a puntare il dito proprio contro i fornitori per mettere le mani avanti circa la difficoltà di raggiungere gli standard richiesti e altri ancora sono arrivati a chiedere ufficialmente un impegno formale in merito.
Skoda ripartizione emissioni per vettura
Jaguar Land Rover, che ha approcciato l’elettrificazione in tempi più recenti ma con un programma decisamente ambizioso (l’intera gamma Jaguar e il 60% delle vendite Land Rover saranno elettriche entro il 2026) affida proprio ai fornitori la responsabilità degli obiettivi di riduzione della CO2, invitandoli a seguire le indicazioni della Science Based Target Initiative e a fornire regolarmente risultati rendicontati sui progressi.
Chi paga per il progresso
Il punto è che per i fornitori, adeguarsi agli standard mantenendo al tempo stesso prezzi concorrenziali è un’impresa a dir poco ardua. Gli investimenti necessari per render ei processi più green, virare sulle energie pulite e sviluppare nuovi materiali ecologici sono ingenti e non possono andare a ripercuotersi sui prezzi da praticare ai costruttori, su cui le trattative sono già serrate.
Al tempo stesso, gli obiettivi delle Case stanno cambiando e con essi anche la filosofia produttiva, non più orientata alla ricorsa dei volumi ma alla customer care e alla conservazione del valore, che tradotto in parole povere significa fare meno auto che durino di più e guadagnare sui servizi.
Un obiettivo, questo, dichiarato chiaramente da Renault con il progetto Re-Factory, ma indirettamente da altri costruttori, come Mercedes e Audi, intenzionate ad abbandonare i segmenti più popolari e concentrarsi sull’alto di gamma puntando meno sui numeri e più sulla redditività.
Il calo dei volumi e il costo della sostenibilità
L’effetto diretto, è che anche i volumi delle forniture richieste rischiano di essere insufficienti ad ammortizzare in tempi ragionevoli gli investimenti necessari per lo sviluppo di nuovi materiali. Dunque, l’indotto della componentistica diventa la valvola su cui si sfoga questo squilibrio tra i costi da sostenere e la guerra dei prezzi che aumenta una concorrenza già spietata.
A questo, si aggiungono i limiti nella disponibilità di fonti rinnovabili, anch’esse alla base di un’industria energetica ancora in gran parte da sviluppare se pensiamo all’idrogeno e al biogas, che non deve assorbire altre risorse sottraendole, ad esempio, al settore alimentare. Anche in questo, spesso le aziende della filiera sono in fondo alla lista e più in difficoltà nello stipulare accordi vantaggiosi che non determinino costi difficili da recuperare.