Diablo, facile cadere in trappola e pensare che questo nome sia ispirato alla figura luciferina, al principe delle tenebre, all’angelo scacciato dal paradiso. Non è così, anche se quelle linee cattive, muscolose, seducenti ed esotiche, potrebbero incarnare la “personificazione” del demonio su quattro ruote, ma Lamborghini scelse tale denominazione restando fedele alla sua tradizionale passione per la tauromachia. El Diablo era un toro feroce e brutale, passato alla leggenda per uno scontro ai limiti dell’epico con il famoso torero José Lara Jiménez, detto El Chicorro. La bestia indomita fu sconfitta dal temibile matador, ma il suo spirito battagliero si è trasferito – circa un secolo dopo – in un toro scatenato su quattro ruote: la Lamborghini Diablo.
Acque torbide
Siamo nel 1985, la Lamborghini divisione automobilistica esiste da più di vent’anni e nel suo libro della vita, ha già molte pagine ricche di fratture. Dopo il boom iniziale, con l’avvento della crisi petrolifera del 1973 e con le molteplici dispute sindacali nella fabbrica, il patron Ferruccio mette in vendita la sua creatura, stufo delle tensioni e spaventato dai temporali all’orizzonte. La casa di Sant’Agata Bolognese, così, passa diverse volte di mano e a metà degli Ottanta, si ritrova sotto la gestione degli svizzeri Jean Claude e Patrick Mimran, imprenditori dello zucchero. Il loro gioiello di punta è ancora la Countach, vettura straordinaria, estrema e senza compromessi, una supercar dura e pura, destinata a driver dal manico sensibile ma con un bel po’ di pelo sullo stomaco. Il mondo delle supercar, nel frattempo, ha fatto passi avanti proponendo modelli più edulcorati e spendibili per una fascia più ampia di persone. In quel periodo nascono le Ferrari Testarossa e Porsche 959, massimo esempio di questa scuola.
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Alla Lamborghini le acque non sono molto limpide, anzi, sono alquanto torbide. Le casse sono quasi svuotate, ma si pensa bene di studiare un’erede della Countach che sposi la nuova filosofia costruttiva delle supercar. Il direttore tecnico è Luigi Marmiroli, mentre al design ci pensa quel genio che alla casa emiliana ha già portato in dote due capolavori, la Miura e la Countach: Marcello Gandini. Nel 1987 gli americani di Chrysler rilevano la proprietà dell’azienda e decidono saggiamente di far proseguire il duo nello sviluppo della futura supercar. Gandini dapprima presenta il suo bozzetto, che tuttavia viene ritenuto dai “capi” come troppo estremo. Bisogna ripartire dal principio. Al secondo tentativo le cose vanno meglio e nel 1990, la Diablo vede finalmente la luce, dopo un quinquennio di gestazione.
Lamborghini Diablo, nel solco della leggenda
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L’avvento di Audi
Nel 1993 arrivano due nuove versioni per la Diablo, la SE30 (per festeggiare i trent’anni dell’azienda) e la SV, quest’ultima con la sola trazione posteriore per dare un “contentino” ai puristi che volevano divertirsi scodando con le ruote posteriori. La cosa sorprendente avviene però ai piani alti, con Megatech – società malese – che compra la Lamborghini dalle mani di Chrysler. In quell’interregno che dura fino al 1998, la Diablo è l’unico modello previsto nel listino. Dunque, sul finire del Novecento al capezzale del Toro arrivano i tedeschi di Audi, che ben volentieri firmano un cospicuo assegno per portarsi a casa il prestigioso brand italiano. Inizia una nuova era. La Diablo viene aggiornata, migliorata, resa più confortevole e scattante. Le ultime versioni sono le: GT, VT 6.0 e VT 6.0 SE.
Nel 2001 la Diablo interrompe la sua corsa, arriva a destinazione e può trovare riposo in un prestigioso garage. In undici anni ne vengono vendute 2.903 unità circa, un numero che di per sé non significa molto. Quello che conta è ciò che ha saputo trasmettere e quello che ha rappresentato: un sogno. È stata un mito per il suo periodo, quasi tutti i ragazzini dell’epoca hanno posseduto un suo poster in camera e un modellino sullo scaffale. È stata una belva indomabile, che nessun matador ha mai messo al tappeto.