Anche i processi interamente digitali come quelli dei centri elaborazione dati consumano energia. Ecco come farli diventare "neutrali"
Qualche tempo fa ha destato curiosità la notizia secondo cui anche i bitcoin, le valute virtuali che in quanto tali non sono né stampate né coniate, generano inquinamento. Non poco, visto che persino il geniale Elon Musk, patron di Tesla, dopo aver inizialmente deciso di usarle come metodo di acquisto delle sue vetture è tornato indietro proprio per l’eccessivo impatto ambientale.
Ebbene sì, anche le attività puramente informatiche sono causa di inquinamento, e in modo molto semplice: accade prevalentemente per il consumo di energia elettrica che i supercomputer divorano in quantità sempre maggiori e che solo in parte arriva da fonti sostenibili.
Il nodo dei data center
Se le criptovalute rappresentano un esempio lampante, in quanto il processo della loro generazione (in realtà vengono “estratte” con un insieme di operazioni di calcolo complesso) rappresenta un lavoro intenso per cervelli elettronici particolarmente potenti, la questione dell’inquinamento dei data center in particolare, è assai più estesa.
Oggi, infatti, la parte software dei veicoli e le funzioni connesse sta rapidamente diventando preponderante sulla componente fisica dei veicoli. Come, del resto, accade un po’ in tutti gli aspetti della nostra vita.
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E se per un fenomeno “di nicchia” come l’estrazione dei bitcoin l’Agenzia Internazionale per l’energia ha stimato nel 2019 un consumo annuo pari a 120 terawattora (120 miliardi di kWh), i computer che gestiranno un traffico di dati già oggi enorme potrebbero facilmente arrivare a consumare più energia degli stessi veicoli sulle strade.
Il data Center Green Mountain di Rennesøy, in Norvegia
La soluzione è “naturale”
La buona notizia è che anche i centri informatici possono essere resi “puliti” nello stesso modo e forse anche con maggiore facilità rispetto a processi come quello della produzione, che generano anche altre sostanze inquinanti e rifiuti.
Per farlo, ha iniziato concentrando una maggior quantità di operazioni nel data center norvegese di Rennesøy, uno dei sei laboratori informatici che attualmente ha a disposizione (compresi i tre “proprietari” nella sede di Wolfsburg, uno a Singapore e un altro sempre in Norvegia). In questo modo, ha portato a circa il 25% la quota a impatto zero delle sue attività in quest’area, con un risparmio di 10.000 tonnellate l’anno di CO2.
Gestito dalla società Green Mountain, questo sito è infatti 100% “carbon neutral” proprio grazie alla sua particolare collocazione: è stato realizzato partendo da un ex-deposito munizioni della Nato scavato in una montagna e si trova sulle rive di un fiordo da cui è possibile attingere acqua alla giusta temperatura (8°) per provvedere al raffreddamento dei server a impatto praticamente zero.
Questo supera il problema dei dispositivi per la dispersione del calore che solitamente assorbono da poco meno della metà fino all’80% dell’energia elettrica complessivamente consumata da un data center. In questo caso, l’energia stessa è comunque sostenibile al 100% visto che arriva da centrali idroelettriche, la principale risorsa utilizzata in Norvegia dove la percentuale di energia rinnovabile sfiora il 99%.
Volkswagen ha iniziato nel 2019 a trasferire nei data center di Green Mountain, cominciando, da quello di Rjukan nella contea del Telemark, alcune operazioni secondarie di calcolo ad alte prestazioni come le simulazioni dei crash-test, così da alleggerire i centri tedeschi impegnati nello sviluppo di nuovi prodotti dell’era elettrica.
Oggi, il colosso tedesco impegna intorno ai 3 MW, circa il 15% della capacità complessiva della sede di Rennesøy, che è predisposta per essere ampliata fino a raggiungere i 52 MW di capacità massima.